Uno dei due centri per il rimpatrio aperti dall'Italia in Albania - Fotogramma
Il dato è chiaro e tagliente come pochi altri. Nel 2023, a governo Meloni già saldamente insediato, i rimpatri forzati dei migranti hanno raggiunto la misera cifra di 4.751. A dispetto della retorica del sovranismo, che promette di cacciare con inflessibile determinazione chi non ha diritto di rimanere. Non è che nell’Ue vada molto meglio, perché i rimpatri hanno coinvolto solo il 27% dei migranti colpiti da ordini di espulsione.
Nel caso italiano, avendo nel frattempo il governo ristretto drasticamente l’accesso all’asilo con il decreto Cutro, il risultato è l’aumento degli stranieri condannati a una vita di stenti: nel migliore dei casi, manodopera a basso costo per l’economia sommersa, nei campi, nei cantieri edili, nei servizi di delivery.
Sono diverse le ragioni di questo fallimento.
Anzitutto, i decreti di espulsione non sono una bacchetta magica, come molti sembrano credere. Occorre la collaborazione dei paesi di origine, mai felici di mostrarsi ossequienti verso le potenze occidentali riprendendosi i loro concittadini espatriati.
Poi c’è la questione dei costi: oltre al trattenimento, anche per mesi, di norma i paesi di origine richiedono che gli espulsi siano scortati da agenti italiani, che vanno poi alloggiati e fatti rientrare. Infatti quasi la metà dei pochi espulsi ( il 45,6%) vengono rimandati nell’unico paese vicino e collaborativo, la Tunisia. Qualche anno fa in Spagna finì sui giornali un leak relativo a una comunicazione dei vertici della polizia, che invitavano a espellere gli immigrati irregolari provenienti dal vicino Marocco, ma di andarci cauti con la lontana Colombia: rimpatriarli costava troppo. Per evitare la spiacevole condivisione dei voli con i normali passeggeri, vengono poi spesso noleggiati aerei appositi. Altri costi. Per di più le compagnie aeree sono refrattarie, perché i migranti rimpatriati contro la loro volontà possono inscenare proteste e danneggiare i velivoli. Successe qualche anno fa con un volo di donne prostituite nigeriane. Ma non solo.
Per rimpatriare una persona bisogna identificarla con certezza, e se questa è priva di documenti la strada si rivela in salita. I migranti per partire si sono indebitati, hanno fatto collette tra parenti e vicini di casa, hanno impegnato le risorse familiari. Ritornare indietro da sconfitti, a testa bassa, è l’ultimo dei loro desideri. Si vergognano troppo. Quasi sempre preferiscono rimanere qui, nei casi limite non dare più notizie, anziché accettare il rimpatrio. Possono ricorrere ad atti di autolesionismo, rimuovere le impronte digitali, procurarsi delle ferite, pur di evitare l’espulsione. Se rimandati indietro, cercano spesso di rientrare nel paese desiderato: come i messicani espulsi dagli Stati Uniti via terra, sui cosiddetti “pullman delle lacrime”. Come sono riportati in Messico, ritentano di passare la frontiera, anche più volte, finché non ci riescono. I passatori più professionali assicurano altri tentativi, se il primo va a vuoto.
Che cosa fare allora? Una via sarebbe quella d’investire molto di più sui ritorni volontari assistiti, che potrebbero aprire nuove opportunità in patria per chi accetta di rientrare. Ma giacché le espulsioni sono motivate dall’ostilità verso i migranti, concedere loro sostanziosi aiuti e assistenza in loco entra in contraddizione con la retorica criminalizzante. Un’altra strada ci sarebbe. Da qualche tempo le associazioni imprenditoriali, troppo a lungo silenti sul dossier immigrazione, lamentano la carenza di “braccia”. Non arrivano abbastanza lavoratori, o non in tempo utile. Dall’altra parte, abbiamo dei giovani migranti che vorrebbero lavorare, e la politica sovranista cerca di cacciarli, con poco successo. Di fatto, li lascia qui ai margini del mercato del lavoro e della società. Se si consentisse alle imprese di assumerli, si risolverebbero due problemi in un colpo solo. In altri paesi lo fanno: scelgono il pragmatismo a spese dell’ideologia. È una lezione su cui riflettere.