E’ il prevedibile colpo di coda alla vigilia dell’addio al Viminale. A costo di innescare uno scontro senza precedenti tra apparati dello Stato. Con la Guardia di finanza di Lampedusa costretta, controvoglia, a sconfessare i provvedimenti della Guardia costiera, a pochi giorni dall’avvicendamento ai vertici della capitaneria dell’Isola. Un gioco di palazzo orchestrato da chi non ha saputo incassare la sconfitta per la sostanziale demolizione del decreto sicurezza, andato a infrangersi contro il diritto internazionale e il “diritto del mare” rispettato da Mare Jonio, la nave della piattaforma Mediterranea che ha salvato 98 naufraghi, dal primo all’ultimo sbarcati in Italia senza che il ministro Salvini riuscisse a respingerne neanche uno.
Così ieri notte, quando oramai era stato concluso il trasbordo degli ultimi 31 migranti, prelevati come sempre da una eccezionale operazione di trasbordo della Guardia costiera, costretta ancora una volta a operare in acque internazionali a causa del divieto d’ingresso alla nave umanitaria, il vascello di “Rescuemed” ha chiesto di poter entrare a Lampedusa per ripararsi dall’imminente tempesta. Venendo meno i presupposti del divieto salviniano (a bordo non c’era più alcun migrante) la Capitaneria di porto dell’isola ha dato luce verde autorizzando il comandante Buscema a fermarsi su un punto di fonda, dove tenere la nave sotto costa e al sicuro dai contraccolpi del maltempo.
A sorpresa, però, una motovedetta della Guardia di finanza si è lanciata verso la Mare Jonio per prelevare il comandante e il capomissione Luca Casarini, poi condotti in caserma all’unico scopo di notificare un sequestro amministrativo con una multa da 300mila euro. La Guardia costiera conferma di avere permesso alla nave l’ingresso nelle acque territoriali, ma le Fiamme gialle non hanno voluto sentire ragioni. Da Roma, infatti, erano state incaricate di rovinare la festa di Mediterranea, che aveva appena concluso la quarta missione del 2019.
Fonti ministeriali e delle forze coinvolte, confermano che al Viminale qualcuno si è risentito per essere finito nelle comunicazioni della Guardia costiera alla procura della Repubblica di Roma e Agrigento. Era accaduto qualche giorno prima, come rivelato da Avvenire, quando dal Comando delle capitanerie di porto di Roma avevano trasmesso al ponte di comando della Mare Jonio il rifiuto di un porto di sbarco per ordine delle “autorità nazionali”.
La missiva era stata inviata alle due procure insieme all’elenco, in chiaro, di 37 altri destinatari coinvolti a vario titolo nel processo decisionale che aveva portato a tentare di bloccare il vascello. Tra questi appariva il nome del capo di gabinetto del ministro uscente Salvini, oltre agli omologhi delle Infrastrutture e della Difesa. Ad Agrigento e Roma, com’è noto, ci sono inchieste per abuso d’ufficio e sequestro di persona, al momento contro ignoti ma che presto potrebbero vedere sul registro degli indagati esponenti politici e funzionari pubblici.
La guerra alla Mare Jonio si iscrive perciò all’interno di una faida politico-burocratica che caratterizza le ore della caduta di un’alleanza di governo che, per ammissione del vicepremier uscente Salvini, avrà altri seguiti. Il quasi ex ministro dell’Interno ha dichiarato ieri che ci sono ad Agrigento “due inchieste contro di me”. Quando dovessero eventualmente arrivare le richieste di autorizzazione a procedere, difficilmente il Parlamento lo salverebbe dal processo, come già avvenuto nel caso Diciotti. La guerra alle organizzazioni umanitarie, perciò, è molto di più che una pesante contravvenzione amministrativa. Ma potrebbe trasformarsi nel campo di battaglia per un regolamento di conti.