lunedì 20 febbraio 2023
La ricerca di due università americane che utilizzano una neuro-tecnologia che stimola il midollo spinale e migliora istantaneamente la mobilità degli arti superiori, conservando i benefici a lungo
Il professor Capogrosso con la sua paziente

Il professor Capogrosso con la sua paziente - Ufficio stampa UPMC

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Avevano perso l’uso di braccia e mani rimaste paralizzate dopo un ictus. Ora possono impugnare e spostare oggetti, aprire delle serrature, disegnare. Così è cambiata la vita di due donne, di 31 e 47 anni, che, prime al mondo, hanno quasi del tutto recuperato gli arti superiori grazie alla stimolazione elettrica del midollo spinale eseguita, dopo anni di studi su modelli informatici e animali, da un gruppo di ricercatori dell'Università di Pittsburgh (tra i coordinatori dello studio i coniugi italiani Marco Capogrosso, pugliese di Manduria, docente di Neurochirurgia, ed Elvira Pirondini, di Sondrio, assistente alla cattedra di Medicina fisica e riabilitativa), della collegata Upmc (University Pittsburgh Medical Center) e della Carnegie Mellon University. Lo studio è stato pubblicato dalla rivista Nature Medicine.

Questa neuro-tecnologia che in parte riprende la soluzione adottata per ripristinare la mobilità degli arti inferiori dopo una lesione del midollo spinale - e che ha permesso alle scimmie prima e agli esseri umani poi di tornare a camminare - migliora istantaneamente la mobilità degli arti superiori, hanno detto gli scienziati, «consentendo ai pazienti colpiti da ictus, sia di lieve sia di grave entità, di svolgere più facilmente le attività quotidiane». Alle pazienti sono stati impiantati due sottili elettrodi metallici lungo il collo che hanno trasmesso impulsi per attivare le cellule nervose nel midollo spinale, lasciando loro comunque il pieno controllo del movimento. Le conseguenze sono state sorprendenti: le due donne sono riuscite ad aprire e a chiudere completamente il pugno, fino a poter usare ancora una volta forchetta e coltello, a sollevare il braccio sopra la testa o a utilizzare nuovamente le mani, riacquisendo in questo modo la mobilità degli arti e delle zone periferiche e diminuendo la propria invalidità. Attualmente non esistono trattamenti efficaci per curare la paralisi nella cosiddetta “fase cronica dell'ictus”, che inizia circa sei mesi dopo l'evento. È stato «un primo studio pilota - hanno spiegato i ricercatori italiani - ma, grazie anche a un finanziamento di 8 milioni di dollari ottenuto dall'Istituto nazionale della salute degli Usa, speriamo di arrivare ad un uso clinico di questa tecnologia in 5-10 anni».

Il professor Capogrosso mentre opera

Il professor Capogrosso mentre opera - Ufficio stampa UPMC

La stimolazione elettrica, «pratica e facile da usare», ha aggiunto Capogrosso, «consente di riacquisire piena mobilità. Ma la vera rivoluzione è aver compreso che in alcuni casi, dopo poche settimane di sedute, i miglioramenti permangono nel tempo anche laddove non viene più eseguita nessuna stimolazione. Questo rappresenta un grande passo avanti per la scienza e una speranza concreta per le terapie di riabilitazione a seguito di un ictus». Di solito, hanno osservato Capogrosso e Pirondini, «quando si ha una lesione al midollo spinale, si cerca di bypassare l'interruzione per ristabilire la trasmissione degli impulsi nervosi. Con l'ictus, però, la rottura che avviene tra le cellule nervose del cervello e del midollo spinale è incompleta, quindi - hanno proseguito - invece di rimpiazzare del tutto il segnale abbiamo deciso di amplificarlo: in questo modo, i pazienti non devono imparare da zero ad utilizzare questa tecnologia, usano semplicemente il loro cervello».

La paziente operata dal professor Capogrosso

La paziente operata dal professor Capogrosso - Ufficio stampa UPMC

A livello globale, l’ictus può colpire un adulto su quattro di età superiore ai 25 anni e il 75% di queste persone potrebbe sviluppare deficit duraturi degli arti superiori, limitando gravemente la propria autonomia fisica. In Italia, si verificano circa 200.000 casi di ictus ogni anno: per l’80% si tratta di nuovi episodi e per il 20% di recidive. Nonostante la mortalità sia in diminuzione, questa patologia è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie e rappresenta la principale causa d’invalidità. Nel nostro Paese i sopravvissuti, con esiti più o meno invalidanti, sono 913.000. Ad un anno circa dall’evento acuto, un terzo dei soggetti presenta un grado di disabilità elevato, tanto da risultare totalmente dipendente dalle cure di altri. Anche per questo, «creare soluzioni efficaci di neuroriabilitazione diventa sempre più urgente - ha dichiarato Pirondini -. Anche i deficit lievi possono isolare le persone e creare disagi nella vita sociale e professionale, diventando molto debilitanti, con compromissioni motorie nel braccio e nella mano che impediscono semplici attività quotidiane, come scrivere, mangiare e vestirsi».

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