Affronta l’aula della Camera, ma il peso se lo è già tolto la sera prima. Maurizio Lupi lascia «il governo a testa alta». Il ministro delle Infrastrutture ha davanti un emiciclo semideserto, che lo avrebbe potuto comunque sfiduciare la prossima settimana, e con questa consapevolezza snocciola la sua arringa, punto per punto, senza mai citare il suo leader Angelino Alfano che gli è seduto accanto. Non c’è Matteo Renzi, impegnato a Bruxelles, che – ripete – non gli ha chiesto di dimettersi. Ma Lupi non attende e nell’arco di 72 ore dallo scoppio dello scandalo, fa notare, prende una decisione che non aveva immaginato e sale al Colle a consegnare la lettera delle sue dimissioni al presidente Sergio Mattarella.«Non sono qui a difendermi da accuse che non mi sono state rivolte. Sono qui per rivendicare il ruolo decisivo della politica nella guida del nostro Paese», esordisce, per mettere in chiaro che nulla gli è stato contestato dalla magistratura. «Non chiedo garantismo per il fatto che non mi hanno rivolto alcuna accusa. Dopo due anni di indagini i pm non hanno ravvisato nulla nella mia condotta da perseguire». La sua decisione, spiega, è dettata solo da un senso di «responsabilità politica». E però il ministro uscente non ci sta a lasciare che tre giorni di indiscrezioni possano cancellare anni di lavoro parlamentare. «Non invoco il garantismo nei miei confronti perché non ho ricevuto alcun avviso di garanzia», scandisce.È a questo punto che Lupi elenca i motivi per cui si sente del tutto estraneo alla vicenda di Incalza e per cui le accuse che gli sono state rivolte sono «immotivate e strumentali». Al «pregiudizio» il ministro contrappone – citando Il maestro e Margherita di Bulgakov – la «testimonianza testarda dei fatti»: ovvero quanto fatto sulle grandi opere, e coglie l’occasione per difendere la struttura tecnica di missione del Ministero («non era la difesa acritica dello status quo») e anche il super dirigente finito agli arresti Ercole Incalza: «Non l’ho rimosso perché non ha subito alcuna condanna», racconta.E convinto delle proprie ragioni, l’accusa che si accolla da giorni resta solo quella di una scelta forse «inopportuna», nel caso del regalo di laurea lasciato prendere al figlio. Ma considera «inverosimile che un amico da 40 anni possa pensare di accreditarsi presso di me regalandomi un vestito». Quanto alle presunte pressioni, insiste di non averne mai fatte «con nessuno per procurare lavoro» al figlio Luca: l’errore, quindi, semmai, ammette è stato di non chiedergli di restituire il Rolex d’oro ricevuto dai Perotti per la laurea.La decisione di dimettersi è stato il suo modo di difendere «gli affetti», che «vengono prima di una poltrona, anche se prestigiosa». Piuttosto, si accalora, «vi auguro, cari deputati, in questi giorni di demagogia a brandelli di non trovarvi mai dentro bolle mediatiche difficili da scoppiare e di non aver mai qualcuno che entri nella vostra famiglia e intimità». Ma come già detto in tv, il suo non è un abbandono della politica, e anzi, la prossima sfida potrebbe essere la candidatura a sindaco di Milano nel 2016.
Il ministro: "Mai pressioni per mio figlio. I miei affetti prima di tutti. Ringrazio Renzi che non mi ha chiesto di lasciare". Il premier vuole Cantone. «Ora pulizia»
Corruzione e malaffare, una calamita senza fine di Giuseppe Anzani
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