Ansa
Da Conte a Draghi, la svolta è radicale. Quattro giorni di show di sostanziale anti-politica hanno certificato quello che in fondo si sapeva già venerdì sera, al di là del tentativo doveroso del presidente Mattarella: la vecchia maggioranza che reggeva l’esecutivo Conte non c’era più. La politica tutto può essere fuorché il limitarsi alla compilazione di un verbale, modello assemblea condominiale, come si è tentato di fare ieri. A nulla sono valsi questi giorni segnati da ripicche e rivalse, altra immagine non edificante di questa classe dirigente.
La prospettiva, come sottolineato dal capo dello Stato, indica solo due alternative: la creazione di un governo a guida istituzionale o tecnica, indicata in Mario Draghi, l’eterna chimera della politica italiana che ora può farsi realtà (pur con tutte le difficoltà che questa strada comporta, dovendo entrare in gioco anche parti del centrodestra, forse anche con un 'appoggio esterno' della Lega), oppure un esecutivo elettorale per votare, che però si vuol evitare per la concomitanza con la pandemia in corso. Formule nelle quali, allargando il campo, la presenza dei partiti, anche di Iv, sarebbe per forza di cose diluita. È questo l’ultimo, fragile spartiacque. È un orizzonte che vede sommarsi motivate ragioni tecniche (affidare il Piano di rilancio Ue da 222 miliardi a mani ritenute più 'competenti') ad altre squisitamente politiche.
A questo punto è chiaro infatti che Renzi, che del governo giallo-rosso è stato l’artefice pur non avendo mai metabolizzato (a differenza del Pd) la mal digerita componente grillina, ha voluto evidenziare e portare alla luce del sole i limiti dell’azione dem. Un partito inspiegabilmente appiattitosi sulla linea M5s, anche su temi storici della tradizione di sinistra, dal lavoro alla giustizia. E Zingaretti, dopo essersi messo sulla scia renziana rinnegando nell’agosto 2019 il «mai con i 5s» gridato fino a poco prima, ha faticato ad ammettere quello che appare, per ora, come un successo totale di Renzi, da lui edificato contrapponendo però sue rigidità a quelle degli «ex alleati». Ma che per il leader di Iv potrebbe anche rivelarsi però una vittoria di Pirro: solo il tempo potrà dire se gli verrà o no riconosciuto un merito storico per questa operazione.
E Zingaretti potrebbe anche, a posteriori, giustificare questo appiattimento con un atto di coerenza estrema verso Conte e i 5s, prima di guardare a nuovi scenari. In un gioco di prospettive che comincia a squassare pure i pentastellati, come dimostra l’addio di Carelli. Restano le macerie di quel che si è consumato. Da rimuovere presto, assieme a quelle, ben più massive, prodotte dal Covid-19 fra ampi strati degli italiani, che vogliono essere rassicurati e non assistere più a continue liti. Alla fine la rottura oltre che sui contenuti, già divisivi, si è consumata sui nomi dell’ipotizzata squadra di governo, in un gioco di veti incrociati dinanzi ai quali nessuno ha trovato il coraggio che a volte serve anche per rassegnarsi. Adesso è l’ora del sangue freddo e dei nervi saldi. Uniche armi rimaste per tentare di costruire qualcosa, per il bene comune del Paese.