Urlate, urlate, urlate! Oh, siete fatti di sasso! Se avessi io le vostre lingue e i vostri occhi, li userei in maniera che la volta del cielo si squarcerebbe
William Shakespeare, Re Lear
Un uomo è perseguitato, torturato, umiliato, disprezzato da altri uomini. Sente la morte molto vicina. Quell’uomo è innocente – come tanti altri, ieri e oggi. Sa di non meritare quel grande dolore, quella violenza, quelle umiliazioni – e chi le merita? Ma quell’uomo, oltre a essere un giusto sofferente e umiliato, è anche un uomo di fede. E lì, in quella notte buissima, forse in un carcere, sopra un mucchio di spazzatura o dentro una cisterna, nasce una preghiera, gli affiora nell’anima un ultimo canto disperato. Che inizia con parole che vanno incluse tra le più preziose, tremende e stupende della Bibbia, tra le più tremende e stupende della vita: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Salmo 22,1). Una vetta poetica, spirituale e antropologica del Salterio, forse quella più alta.
Ancora un grido che apre una preghiera, come in Egitto, quando la prima preghiera collettiva del popolo schiavo fu un altro grido (Esodo 2,23). Molte preghiere grandi prendono la forma del grido, di un urlo scagliato verso il cielo per cercare di svegliare Dio. Nella Bibbia gridare è possibile, lecito, consigliato, è un linguaggio che Dio sembra capire. Urlando possiamo destare Dio, ricordargli il suo "mestiere" di liberatore di schiavi e di poveri. Finché siamo capaci di gridare l’abbandono non abbiamo perso la fede, la stiamo solo esercitando, la stiamo semplicemente compiendo.
Quell’uomo torturato, quel "servo sofferente" grida e vive la sua sventura nella fede, e quindi dentro quell’abbandono sente anche l’abbandono di Dio. E quel grido diventa la corda (fides in latino) per non perdere contatto con Dio, il filo d’oro della vita che non si spezza proprio perché osiamo gridare. Quell’uomo non accusa Dio di averlo ridotto in quelle condizioni; diversamente da Giobbe, non considera Dio il suo carnefice. Il suo dolore nasce invece dal non intervento di Dio, che dovrebbe intervenire come liberatore del suo fedele innocente, ma ancora non lo fa: «Mia salvezza, perché sei lontano? Non parlo più, muggisco» (22,2).
Per svegliarlo, quell’uomo ricorre alla migliore strategia presente nella Bibbia: ricorda a Dio chi è, lo aiuta a ricordarsi della sua promessa: «Eppure tu sei il Santo, tu siedi in trono fra le lodi d’Israele. In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li liberasti; a te gridarono e furono salvati, in te confidarono e non rimasero delusi» (22,4-6). In ogni rapporto che si vuole salvare, la prima preghiera non è: "ricordati di me", ma: "ricordati di te", e quindi "ricordati di noi".
Nella Bibbia la memoria è la risorsa estrema, quella più efficace. Si torna agli eventi di ieri per ricreare la fede di oggi e di domani. E il chi è Dio diventa immediatamente cosa ha fatto, e non azioni generiche e anonime ma quelle azioni specifiche e concrete dentro l’esistenza reale di chi sta pregando, urlando, di chi tenta di svegliarlo. Nell’umanesimo biblico è la storia la prima prova che il suo Dio è vivo: la storia del popolo, ma anche la storia di ogni persona. Ogni credente ha un suo Egitto, un suo Mar Rosso e un suo Sinai da narrare e da portare come dimostrazione della non-vanità della sua fede. Ogni preghiera è dunque un incontro di tre "ricordati": preghiamo Dio di ricordarsi di sé, di ricordarsi di noi e a noi stessi di ricordarci di Dio: «Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre... Dal ventre di mia madre il mio Dio sei tu» (22,10-11).
Sei proprio tu: non mi abituo mai all’intimità e alla confidenza con cui nei salmi gli uomini si rivolgono al loro Dio. In quel mondo antico, violento, spesso primitivo, Dio era il loro "tu" più delicato e segreto, era l’amico, l’amante, l’amato, l’amore. Ripetendo i salmi generazione dopo generazione, giorno dopo giorno, ora dopo ora abbiamo imparato a pregare e abbiamo conosciuto meglio Dio e conosciuto di più l’uomo e la donna; ma abbiamo anche imparato la tenerezza e la confidenza tra di noi, il dialogo guancia-a-guancia, perché quel "Signore degli eserciti" sapeva farsi più tenero di un bambino, di una sposa, di una madre.
«Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: "Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!". (...) Sono slogate tutte le mie ossa. Arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato. Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori. Hanno bucato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa. Si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte... Tu sei il mio Dio» (22,12-20). Non servono altre parole. Ogni commento guasta. Ma non possiamo tacere una resurrezione, tutte le resurrezioni vanno annunciate: «Tu mi hai risposto!» (22,22).
L’abbandonato ha svegliato Dio. Ancora una volta un urlo di un innocente ha bucato il cielo: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea... Perché egli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero... I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano. Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra!» (22,24-28).
La lode diventa preghiera universale, cosmica, infinita nello spazio e nel tempo. Uno dei frutti più sublimi e meravigliosi delle grandi sventure superate è un’anima allargata fino a coprire l’universo. Si diventa madri e padri dell’umanità, nasce una nuova fraternità con tutti, buoni e cattivi, ci si sente piccolissimi eppure sovrani del mondo.
Un altro innocente, in un altro giorno, fu catturato, torturato, condannato, gli furono bucati piedi e mani, appeso al legno. Chi raccolse e narrò la passione di quell’uomo non trovò in tutta la Scrittura testo più adatto del Salmo 22 per farne il pentagramma su cui scrivere la sinfonia del Golgota. Al culmine della vita e della passione del Cristo troviamo un altro grido, rivestito con le parole del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» (Mc 15,34; Mt 27,46).
Fu una scelta straordinaria, geniale, tutta dono. Gli evangelisti sapevano che quella passione non era la stessa che aveva vissuto, secoli prima, quell’anonimo salmista. Eppure non ebbero paura di riportare quel canto scandaloso – un Uomo-Dio che grida l’abbandono di Dio. Lo fecero perché volevano dirci qualcosa di importante.
Se quei discepoli e testimoni, per trasmetterci qualcosa della loro comprensione della passione e morte di Gesù, scelsero il Salmo 22, allora l’idea di Dio all’opera in quella crocifissione deve essere molto simile al Dio di quell’antico salmo. Volevano dirci che per capire quell’abbandono e quella croce dobbiamo prendere molto sul serio il Salmo 22.
L’uomo del Salmo ha sentito veramente l’abbandono da parte di Dio. Non fingeva, l’abbandono era vero. Così per Gesù. L’uomo del Salmo restò un uomo di fede dentro la sua passione, non perse la fede. Così Gesù. Quell’uomo non protestò col Padre accusandolo della sua sofferenza, ma lo pregava perché intervenisse dentro quella sofferenza. E Dio rispose, fece il suo mestiere di liberatore e salvatore, e lo resuscitò dalla sua "morte".
Scegliere il Salmo 22 significa allora prendere le distanze da molte letture teologiche della morte di Cristo, antiche e moderne. Innanzitutto quel salmo ci dice che la croce di Cristo non è stata voluta da Dio come "prezzo" per salvarci. Il salmista sa che non è stato Dio ad averlo condotto sul suo patibolo, ma lo prega di liberarlo. Dio sta dalla parte della liberazione non della condanna. Inoltre, la croce di Gesù non è stata vissuta e compresa dai primi cristiani come sacrificio del Figlio gradito dal Padre, perché in quel Salmo il salmista non dice che Dio gradisce quella sua sofferenza, dice esattamente il contrario. Infine, quella passione e quella croce non sono vissuti come sacrificio volontario del Figlio: il salmo ci dice esattamente l’opposto, l’uomo sofferente chiede a Dio di liberarlo da quel dolore ingiusto, e ottiene quella liberazione. Il Dio biblico non vuole la sofferenza dei suoi figli.
Il Salmo 22 è anche il Salmo della resurrezione. Ci dice che la resurrezione è la risposta del Padre alla preghiera del Figlio. Come ci dice che sebbene la resurrezione di Cristo sia stata un evento speciale e unico, è anche vero che quanto accadde tra la Via Crucis e il Sepolcro vuoto aveva qualcosa di simile a quanto aveva vissuto quell’antico salmista, a quanto avevano vissuto già molti uomini e donne ferite, umiliate, crocifissi e risorti, ai miracoli che ci accadono quando ci ritroviamo sopra un monte, ci sentiamo come vermi, non perdiamo la fede (almeno quella nella nostra innocenza), e ci ritroviamo risorti. Che quanto vissuto dal Cristo era molto simile, forse identico a quanto vissuto dai molti crocifissi della storia – e quindi nessun crocifisso della storia rimane fuori dall’orizzonte benedicente del Salmo, del Golgota, del Sepolcro vuoto. E quando il dolore non passa e la resurrezione non arriva, siamo autorizzati a gridare prendendo in prestito le parole del Salmo 22: cantiamolo una, due, cento volte. Se l’angelo della morte ci troverà con quelle parole sulle labbra o nel cuore, tra le sue braccia inizierà una resurrezione – nelle terapie intensive della primavera pandemica del 2020 hanno visto molte Bibbie, alcune aperte proprio nel libro dei Salmi.
Se il grido del Cristo in croce è l’inizio del Salmo 22, allora possiamo pensare che quel Salmo sia stata la preghiera di Gesù in croce. Seguiamolo nel suo canto segreto: «Mia salvezza, perché sei lontano? Non parlo più, muggisco ... Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono. Hanno bucato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa ... Ma tu, o Dio, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto... Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre». E infine, l’ultimo sussurro: «Tu sei il mio Dio».
L.bruni@lumsa.it