giovedì 21 novembre 2013
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Ottocentomila o seimila? È una questione di “metodo”. Perché l’individuazione del numero di giocatori d’azzardo patologici in Italia sarà pure non semplicissima. Ma passare da 800.000 a 6.000 evidenzia metodi a dir poco antitetici. Quello scelto da Sistema Gioco Italia di Confindustria e sventolato nel corso del convegno Gioco - Giocatori. Comportamenti e riflessioni, è stato presentato da Claudio Barbaranelli, ordinario di Psicometria all’Università La Sapienza di Roma, autore di una ricerca – commissionata da Sisal e Lottomatica (tra i maggiori operatori del gioco d’azzardo) – che porta a questa conclusione: gli italiani in trattamento per “gioco patologico” sono «circa 6.000».Il docente ha considerato «le persone in trattamento nelle strutture pubbliche», citando il Dipartimento delle Politiche antidroga. Ma se i giocatori patologici sono 6.000, gli altri 794.000 come si possono classificare? Ebbene, secondo la ricerca della Sapienza e dell’Ipsos, si tratta di «giocatori problematici». Le caratteristiche? Quello “tipo” vive al Nordest e in centri con più di 250.000 abitanti, «ha entrambi i genitori e altri membri della famiglia che giocano eccessivamente, spende più di quanto guadagna o non riesce a risparmiare nulla, ha contratto debiti con finanziarie o con privati; è “onnivoro” – è impegnato in più giochi – dedica in media più tempo al gioco, gioca più frequentemente e con somme più elevate». È, sempre stando alla ricerca, «molto motivato a giocare (per divertirsi, per guadagnare, o per mostrare le proprie abilità), nutre credenze errate rispetto al gioco, sovrastimando le proprie probabilità di vincita e il proprio controllo sull’esito delle giocate, ha una bassa capacità di autoregolare il proprio comportamento di gioco, è impulsivo, mostra una consistente propensione al rischio, è poco soddisfatto e tende a sperimentare situazioni psicologiche di disagio». A questo si deve aggiungere un altro fattore che mette a rischio il giocatore problematico: e cioè le sue «errate convinzioni (i “falsi miti”) rispetto al gioco (pensare che se si continua a giocare, alla fine, ci si rifarà delle perdite, ecc.), la familiarità (avere o aver avuto uno o entrambi i genitori con problemi di giochi)», e, ancora, «l’ansia e l’impulsività». Il presidente e amministratore delegato di Ipsos, Nando Pagnoncelli, ha evidenziato che la «maggior parte dei giocatori non presenta problematicità, gioca per divertirsi»: si tratta di un bene «che è stato ridotto con l’avanzare della crisi, come tanti altri acquisti d’impulso». Inoltre, ha osservato il noto sondaggista, «i giocatori problematici sono una ridotta minoranza», il cui «modesto status socio-economico e culturale» li espone ai «messaggi relativi alla facilità della vincita al gioco».Ora, detto che la cifra di 800.000 giocatori patologici in Italia, è menzionata, tra l’altro, negli atti della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati (seduta del 2 agosto 2012), c’è da chiedersi: è proprio così marcata la differenza tra giocatore problematico e giocatore patologico?«Nient’affatto, anzi!», risponde sorpreso Silvio Scarone, titolare della cattedra di Psichiatria dell’Università degli Studi di Milano e direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Azienda ospedaliera universitaria San Paolo del capoluogo. «Patologico o problematico che dir si voglia – spiega –, non c’è nessun dubbio: queste persone presentano un disturbo mentale. Il sistema diagnostico lo riconosce tra i disturbi di dipendenza non legati all’uso di sostanze stupefacenti e i criteri diagnostici sono perfettamente sovrapponibili a quelli elencati in questa ricerca. Manuale statistico-diagnostico dei Disturbi mentali alla mano, quindi, si tratta di patologia, altro che problematicità».Nel corso dell’evento milanese di ieri – al quale hanno preso parte anche Giorgio Vittadini (Fondazione Sussidiarietà) e Marco Dotti (Università di Pavia) –, Giancarlo Rovati, ordinario di sociologia dell’Università Cattolica di Milano, ha presentato una ricerca su “Comunicazione e gioco responsabile”, rimarcando l’importanza della «questione educativa quale principale veicolo di responsabilizzazione delle singole persone» e stigmatizzando «atteggiamenti “proibizionisti”» al gioco d’azzardo che «potrebbero ottenere l’effetto contrario, tanto più perché rischierebbero di alimentare i circuiti che fanno leva proprio sul proibito».
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