Un murale che ricorda Luana D’Orazio, giovane mamma morta sul lavoro a 22 anni per produrre qualcosa in più - Ansa
Quanto vale la vita di un lavoratore? Quella di Luana D’Orazio l’8% in più di produzione. Alla tragedia della 22enne di Prato, mamma di un bimbo di 5 anni, straziata dall’orditoio cui lavorava lo scorso 3 maggio, si aggiungono nuovi, raccapriccianti particolari. Nel dispositivo di conclusione delle indagini sono riportati alcuni particolari degli approfondimenti sui macchinari dell’opificio di Montemurlo, eseguiti dalla Guardia di Finanza, da cui emerge come la manomissione dei dispositivi di sicurezza, già accertata dalle indagini nei giorni successivi all’incidente, sia stata eseguita per ottenere, appunto, l’8% di produzione in più.
Un espediente che, notano gli inquirenti, «non avrebbe però generato alcun guadagno per l’azienda», perché il macchinario cui era addetta la giovane operaia era “da campionatura”, la cui quantità di produzione non influisce sul fatturato aziendale.
Un particolare che, in ogni caso, non sposta di un millimetro la questione: nessun incremento di produzione e fatturato - piccolo o grande che sia - giustifica il sacrificio di una vita umana. Mai. In nessun caso, in nessuna azienda, in nessun territorio. Eppure, confermano le indagini, è proprio ciò che è successo a Luana (e alla sua famiglia), una tragedia per cui, ora, ci sono tre rinviati a giudizio: Luana Coppini, titolare dell’impresa e il marito Daniele Faggi, ritenuto dalla procura amministratore di fatto dell’azienda e Mario Cusimano, il tecnico manutentore dell’impianto. Che, quando Luana è morta, viaggiava ad alta velocità con le saracinesche di sicurezza alzate, anziché abbassate come di prassi, proprio per motivi di sicurezza.
Se così fosse stato, è la conclusione di chi indaga, Luana non sarebbe rimasta intrappolata nell’orditoio e non sarebbe morta. Per questo motivo, ai tre indagati è contestato non soltanto l’omicidio colposo ma anche la rimozione dolosa delle cautele anti-infortunistiche.
La storia di Luana, diventata suo malgrado il “volto” dei morti sul lavoro, è simile a quella di tante altre vittime, uccise dalla “fretta incosciente” che sta caratterizzando questa ripresa post-pandemia. Naturalmente, non si può e non si deve generalizzare, ma il problema esiste se, per esempio, l’86% delle aziende ispezionate risulta irregolare. O, ancora, se, la settimana scorsa, in appena tre giorni si sono contati 15 morti sul lavoro, 772 nei primi otto mesi del 2021, più di tre al giorno.
Uomini e donne sacrificati sull’altare della ripresa. Un orizzonte cui tende l’intero Paese ma non un traguardo da tagliare a tutti i costi, o, peggio, costi quel che costi. Non può tingersi di “rosso sangue” la ripartenza dopo il Covid, eppure è ciò che, sotto traccia, sta avvenendo e che ha fatto suonare l’allarme anche nei palazzi della politica. Che ora annuncia «sanzioni più severe» per chi non rispetta le regole e vuole dotare il sistema di repressione dei reati di una Procura nazionale del lavoro, come prevede il disegno di legge, targato Movimento 5 stelle, depositato ieri nelle commissioni Lavoro e Giustizia del Senato.
Una soluzione fortemente caldeggiata dal nuovo direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano, magistrato con anni di impegno proprio nella dura trincea degli infortuni sul lavoro, per dotare il sistema di nuove figure di inquirenti specializzati in questo tipo di reati. E velocizzare i processi, che troppo spesso finiscono con la prescrizione. Negando alle famiglie dei morti sul lavoro anche quel minimo di giustizia cui hanno diritto.