Credo che chi ha commesso una illegalità debba essere messo in condizione di assumersi davanti alla società la responsabilità di contribuire al bene comune». Non è solo una questione di "risarcimento", quella che pone don Virginio Balducchi, Ispettore generale dei cappellani dell’Amministrazione Penitenziaria. Nonostante tutto, «anche nell’emergenza sovraffollamento osserviamo segnali di speranza».
In che senso?La situazione è allarmante, ma proprio per questo sta crescendo, nelle carceri, la consapevolezza che il disagio coinvolge tutti, dai detenuti, agli operatori, agli agenti. Così si sviluppa una sorta di condivisione dei problemi. Anche questo può essere un presupposto per i percorsi di ravvedimento.
Qual è la situazione complessiva?Le notizie che ci provengono e gli incontri che faccio con i cappellani in tutte le regioni rimandano a un contesto abbastanza preoccupante. Ancor di più perché non si tratta di una urgenza di questo periodo, ma di una emergenza che si protrae da anni. La maggior parte dei detenuti, peraltro, proviene da fasce di popolazione afflitta da disagio sociale e, nonostante la formazione continua e l’aggiornamento del personale, ci si trova spesso davanti a situazioni difficili da affrontare e gestire.
Perché?Il continuo uscire e rientrare in carcere, sempre delle stesse persone, si deve al fatto che spesso costoro non hanno strumenti per potersi gestire la vita al di là dell’illegalità o del disagio, come nel caso della tossicodipendenza. Questo ci fa dire che la pena dovrebbe essere gestita molto di più sul territorio che non nelle case di reclusione, dove dovrebbero essere usati strumenti per responsabilizzare le persone, che non vanno trattate come bambini a cui somministrare solo regole da rispettare, ma adulti che insieme alle regole devono imparare a costruirsi un futuro.
Faccia una proposta.<+tondo>Il recente protocollo d’intesa con l’Associazione dei Comuni italiani prevede che i detenuti (coloro che rispondono a determinati requisiti, ndr) possano svolgere attività di lavoro socialmente utile. Se ogni Comune potesse farsi carico di una sola persona, si alleggerirebbe il sovraffollamento consentendo a tanti di non stare rinchiusi per 24ore senza far niente. L’ozio non è educativo. Molte città lo hanno già sperimentato, come Milano o come Bergamo, dove da 15 anni sono in atto progetti specifici. L’esperienza ci dice che i reclusi, quando vengono messi in condizione di rendersi utili, assumono un atteggiamento costruttivo per sé e per gli altri.
Pensa che politica e società civile siano pronti?Noi ci rivolgiamo alla comunità, e specialmente a quella ecclesiale: con queste persone si può convivere ed oggi vi sono meno ostacoli del passato per quanti volessero cooperare al recupero dei detenuti. Un maggiore impegno sarebbe nell’interesse di tutti.