Un gruppo di migranti detenuti in un campo libico. Spesso si punta ad ottenere un riscatto per poi metterli in mare su un barcone insicuro - Archivio
Alla luce delle testimonianze, gli operatori di Medu chiedono al governo italiano di anteporre «a qualsiasi collaborazione» con Tripoli «il prioritario rispetto dei diritti umani dei migranti», perché l’Italia non può «ipocritamente ignorare le gravissime violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione», né «il ruolo della Guardia costiera libica nel riportare migliaia di persone in questi lager».
«Haithem è il nome del libico che comanda nella prigione informale di al-Harsha. Si fa aiutare dal fratello Ismael… Sono violenti e armati e, con il loro gruppo, mi tenevano rinchiuso insieme ad altri 300 migranti, bengalesi e subsahariani. Mi hanno picchiato e maltrattato per 2 mesi, trattato peggio di una bestia, e mi hanno negato cibo e acqua…». È l’agghiacciante racconto di un migrante bengalese approdato sulle coste siciliane, dopo esser stato a lungo in Libia in un campo gestito da trafficanti di esseri umani, denominato al-Harsha e situato sulla costa a ovest di Tripoli, nei pressi di al-Zawija.
La testimonianza dell’uomo – che chiameremo M. per tutelare la sua identità – e quelle di altri quattro bengalesi segregati in periodi diversi nel medesimo lager sono state raccolte da un team dell’associazione Medici per i diritti umani, che ha trascritto i loro racconti negli ultimi 9 mesi presso l’ambulatorio di Ragusa.
Dalle loro parole emerge un universo di sofferenze, torture e soprusi inflitti per ottenere un riscatto, in un contesto di presunte connivenze con militari libici e nel silenzio del governo di Tripoli, interlocutore politico col quale governo e Parlamento hanno appena rinnovato l’intesa di sostegno della locale Guardia costiera.
Il lager di al-Harsha. I cinque migranti bengalesi hanno raccontato ai medici di essere sopravvissuti a mesi di detenzione e torture nel “centro di sequestro” di al-Harsha, ubicato – in base alle loro testimonianze – nei dintorni di al-Zawija, città costiera a 50 chilometri a ovest di Tripoli, fra i principali punti di imbarco usati dai trafficanti per le partenze verso l’Italia. Per essere rilasciati, tutti hanno dovuto far versare un riscatto agli aguzzini di Haithem, con denaro raccolto dalle loro famiglie e poi inviato in Libia.
«Haithem il libico» e i suoi aguzzini. Dalle cinque testimonianze, emerge uno spaccato atroce della condizione di migliaia di migranti nei campi libici. al-Harsha si trova nelle vicinanze di una moschea ed è circondato da alte mura: una immagine di Google maps mostra capannoni, containers e un grande cortile, usato a volte come deposito per alcune imbarcazioni. Da al-Harsha, il mare non è molto distante.
Secondo le testimonianze dei migranti detenuti, il centro può arrivare a contenere 200 o 300 reclusi. Nelle loro testimonianze, i 5 bengalesi descrivono con molti particolari la topografia del luogo. Il capo del lager di al-Harsha, annotano gli operatori di Medu, è «un uomo libico di nome Haithem che possiede anche una pompa di benzina a pochi metri dal centro». Non lavora da solo: «Dispone di un gruppo di uomini armati e violenti e di un braccio destro, il fratello Ismael». Racconta il bengalese M.: «Mentre ero recluso ad al-Harsha ho visto decine di migranti bengalesi come me presi a pugni e calci, colpiti col bastone, umiliati. Haithem, il libico, spesso si fa aiutare da altri migranti a torturare le persone rapite: li costringe a farlo e alcuni li paga».
La mappa del piccolo regno di Haithem, il centro dove vengono sequestrati i migranti finiti in trappola e la pompa di benzina - Archivio
«Ossama prison». I cinque testimoni, intervistati dagli operatori di Medu, denunciano una presunta connivenza tra i criminali di al-Harsha e alcuni miliziani della prigione al-Nasr di al-Zawija, sotto il controllo formale del governo libico e da loro soprannominata Ossama Prison. Il testimone M. racconta di aver visto, mentre era ad al-Harsha, «più volte arrivare soldati e altri migranti bengalesi. Ho capito e sentito che provenivano da Ossama Prison.
Haithem tiene rapporti con i soldati di quel carcere e fa affari con loro. Anche loro chiedono il riscatto e vendono le persone incarcerate». I soldati di Ossama Prison, prosegue M., «facevano irruzione nella struttura dove ci tenevano reclusi e facevano festa usando droghe, cibo e alcol assieme al gruppo di Haithem. Spesso ubriachi o sotto effetto di droghe usavano violenza contro di noi e ci colpivano. Era terribile».
Cinquemila euro di riscatto. Nel centro di al-Harsha bengalesi e altri migranti, in gran parte dell’Africa subsahariana, «vengono sistematicamente torturati dai rapitori a scopo di estorsione». E per essere rilasciati, debbono implorare le famiglie di pagare un riscatto di un valore compreso «fra i 3mila e i 5mila euro».
Nel campo vengono praticate forme di tortura fisica e psicologica. E gli aguzzini «esigono spesso l’aiuto di altri migranti nella pratica della tortura ». Alcuni, anch’essi d’origine bengalese, si trovano attualmente sotto processo presso il tribunale di Palermo con l’accusa di aver collaborato a diverse tipologie di violenze e soprusi. E alcuni fra i migranti che hanno raccontato la loro storia a Medu stanno attualmente testimoniando nelle udienze del dibattimento, ribadendo quanto hanno riferito nell’ambulatorio di Ragusa nei mesi scorsi.