Il questore di Torino Giuseppe De Matteis - .
Un ragazzino morto accoltellato a Formia un mese fa, un sedicenne ferito a Napoli e a Desio, la scorsa settimana, è apparso pure un machete. E poi. Risse quasi ogni fine settimana da Milano a Roma, da Prato a Gallarate. Il tutto regolarmente filmato e postato in rete in tempo reale, in una sorta di gara a chi raccoglie più like. Oltre a insulti alle forze dell’ordine. Un anno di lockdown e chiusure a intermittenza delle scuole, hanno lasciato pesanti strascichi nella popolazione giovanile, che trovano la loro manifestazione più eclatante in questa reazione rabbiosa ai limiti posti dalle doverose misure di sicurezza e contenimento della pandemia. Un’insofferenza covata da tempo che esplode all’improvviso per i motivi più banali. Un apprezzamento non gradito a una ragazza, uno sguardo di traverso sono più che sufficienti perché sul web parta la chiamata a raccolta delle “truppe”, che di li a poco si affronteranno in strada. Notti di follia che devono indurre a una riflessione sui danni che l’emergenza sanitaria rischia di lasciare nelle giovani generazioni. Le più penalizzate e trascurate in quest’anno di lotta a una pandemia, che da sanitaria sta diventando sempre più emergenza sociale.
Torino, una città sicura. Nella quale però il disagio emerge spesso, anche in forme violente. E non è solo effetto di Covid-19. E non è solo qualche clochard che dorme per strada. I giovani sono più a rischio. Gli adulti stentano forse a capire. Qualche mese fa, con la scusa di una manifestazione contro alcune misure anti-pandemia, gruppi di adolescenti hanno devastato le vie del centro, rubato nei negozi, seminato il panico. Ne hanno arrestati 37 questa settimana. Un caso eccezionale oppure un segnale da prendere con grande attenzione? Avvenirene ha parlato con Giuseppe De Matteis, questore di Torino, che ha lanciato un allarme: c’è il rischio di avere in città una banlieue simile a quella parigina.
Cosa sta accadendo?
Torino è sempre stata nel bene e nel male un osservatorio privilegiato del cambiamento sociale e di quanto potrebbe avvenire in altri centri urbani. Su poco meno di 900mila abitanti circa 140mila sono immigrati; in provincia su 2,4 milioni si arriva a quasi 280mila. Nella gran parte dei casi è stata realizzata un’ottima integrazione. Ma non sempre.
E gli adolescenti-saccheggiatori di qualche mese fa?
Sono giovanissimi che si credono liberi di fare tutto: un segnale da non sottovalutare. Si tratta di minori tunisini e marocchini, alcuni nati a Torino, che parlano perfettamente italiano, frequentano scuole italiane, hanno relazioni con i loro coetanei italiani, non sono per nulla radicalizzati e hanno però scoperto l’uso disinvolto degli strumenti social e della violenza. Ciò che hanno fatto è stato diffuso in rete e ha ricevuto numerose adesioni. Il rischio di emulazione è alto. Quello che è emerso, poi, è che arrivano quasi tutti da Barriera di Milano: un quartiere con 170mila abitanti, il 13,4% immigrati.
È la “banlieue” italiana?
Assolutamente no. Ma è l’esempio di una zona di una grande città che deve essere seguita con attenzione. Non dico che non venga già fatto, ma occorre fare di più. Torino non è Parigi: non abbiamo a che fare con il radicalismo islamico e con l’isolamento culturale. Forse però c’è qualcosa di più subdolo: la perdita del senso delle regole.
Cosa vuol dire?
Il web è stato usato come veicolo per denigrare l’azione delle forze dell’ordine e dello Stato. Sui social gli arresti sono starti attribuiti non alle devastazioni, ma alla condizione di immigrati che abitano in quella zona della città. C’è gente disposta a dare credito a questi giovani.
Quali altri disagi ci sono?
Quelli di una integrazione ricercata e voluta, che però adesso non funziona a causa della crisi economica e della pandemia. C’è la sensazione di vivere una promessa non mantenuta. La crisi vale per tutti. E in alcune aree c’è effettivamente la sensazione di insicurezza. Oltre a questo, mentre è possibile dire che l’anarchia ha ormai un ruolo tutto sommato tenuto sotto controllo, non dobbiamo abbassare la guardia sulla criminalità organizzata. Torino è una poi delle città con il più alto numero di arresti per droga. Che spesso però non servono a far diminuire l’allarme nella percezione sociale.
In che senso?
Il vero problema è bloccare in carcere chi spaccia. Una cosa è l’arresto, un’altra è l’ordinanza di custodia cautelare che però scatta solo in caso di reati punibili con oltre 5 anni: lo spaccio non vi rientra. Anche da qui nasce l’insicurezza del territorio. Ma non è tutto qui.
Cosa vuol dire?
Si è abbassata la percezione della gravità dei reati e dello spaccio in particolare. C’è un costante uso di droga, in buona parte tollerato anche da chi non appartiene al mondo delinquenziale. Non si capisce che lo spaccio ha dietro il narcotraffico gestito da centrafricani oppure dalla criminalità organizzata. Molti però sembrano addirittura vedere come una ingiustizia che si arresti il ragazzino che spaccia a scuola. In alcune zone della città le volanti vengono aggredite non solo quando c’è un arresto, ma anche solo quando passano per la strada. È sconvolgente.
Torniamo alla città. È davvero così in crisi?
A Torino si fa moltissimo in tema di integrazione e di aiuti alle fasce più deboli della popolazione. Ma il disagio che si percepisce, l’insicurezza che si coglie dicono che serve di più. E non è naturalmente solo compito delle forze di polizia. Non può passare culturalmente l’idea che essendo nato a Torino oppure in Italia, un ragazzo di 16 anni possa accedere ad un bene rubandolo.