Nella trattativa sul jobs act Matteo Renzi ha scelto per sé la parte del cattivo. E da due santuari dell’informazione finanziaria globale, il Wall street journal e Bloomberg tv, il premier detta a Roma la linea dura: «Non è il momento del compromesso ma del coraggio. I sindacati sono contro di me? Non è un problema. Vado avanti indipendentemente dalle reazioni, la riforma del lavoro è una priorità». È il penultimo giorno del premier negli Usa. Il giorno del suo primo discorso all’Onu, nonché la vigilia dell’attesissima visita agli stabilimenti di Detroit di Fiat-Chrysler alla presenza di Sergio Marchionne e Andrea Agnelli. Ma anche per i media internazionali non sembrano esserci altri temi: il lavoro, le riforme, l’Europa. «Compromesso non è una brutta parola, ma ora non è la strada. Dobbiamo assolutamente investire in un nuovo mercato del lavoro», incalza Renzi. Quasi negli stessi minuti il ministro del Lavoro Giuliano Poletti mostrava lo stesso atteggiamento aggressivo: «Basta tabù e niente pasticci all’italiana», è il suo monito. In effetti l’ex leader di Legacoop, negli ultimi giorni, ha visto transitare al Senato ipotesi che non gli piacciono, che farebbero sembrare l’intervento sullo Statuto dei lavoratori una pura operazione di facciata. Impressione scambiata con Renzi, e che il premier in parte condivide. È ancora presto per dire che il premier voglia l’eliminazione dell’articolo 18 senza vie di mezzo. Anzi, il detestato compromesso sembra in realtà vicinissimo. Ma alla decisiva direzione Pd mancano ancora 72 ore e tutto può succedere. Di certo Renzi vede che la partita si sta mettendo a suo favore: osserva i sindacati retrocedere, la minoranza cercare un accordo. E alza il tiro per incassare il massimo. «Poche persone pensano di poter bloccare il premier, in Italia è normale, è sempre successo così. Ma non è il momento delle elezioni. Dobbiamo assolutamente rispettare la scadenza del 2018, sono impegnato a raggiungere questo traguardo. I problemi vanno affrontati, non evitati andando al voto come si è sempre fatto». È un Renzi che parla come se avesse il consenso parlamentare in tasca. Consapevole che le urne non convengono a nessuno. Anche perché l’Europa non cambierà in modo significativo le politiche economiche sino a quando Roma non si sarà messa ad attuare davvero le riforme. «Dobbiamo cambiare l’Italia, altrimenti non possiamo cambiare l’Ue», ammette il premier. La strada che ha davanti il governo non è dunque quella delle facili concessioni sui vincoli di bilancio. L’esempio è proprio la Germania: «Quando decisero di fare le riforme nel 2003, si presero la flessibilità e non rispettarono il 3 per cento. Noi ora lo rispettiamo, ma chiediamo flessibilità mentale». Ma Berlino è Berlino, non aveva il gap di credibilità del nostro Paese, e undici anni fa non c’era la recessione. Il punto è che ora, intorno al derby austerity-crescita, «l’Europa è bloccata» e non darà segni di effettiva vitalità finché non ci sarà «una nuova leadership capace di visione ». Nelle due interviste americane, infine, Renzi nega che nella prossima manovra possano esserci nuove tasse e, nel ribadire che la Bce in questo scenario sta agendo bene, difende la sovranità sulle riforme. Niente Trojka né raccomandazioni 'particolari', insomma.