Da questa collina di San Giovanni che negli anni Settanta Franco Basaglia riuscì a “scardinare”, rompendo l’isolamento del manicomio, restituendo diritti agli internati e rimettendo la persona al centro della cura, ancora di più Trieste appare città capace di mettere in relazione gli uni agli altri, territorio in cui tutti possono trovare il loro posto, la loro partecipazione alla cosa comune. È qui, al piano terra dell’edificio M dell’ex ospedale psichiatrico, qui dove un tempo erano rinchiuse le cosiddette pazienti “tranquille”, che frammenti di vita riprendono valore, insegnando, grazie al lavoro della sartoria sociale Lister, una storia di inclusione che parla di sostegno alle fragilità, cultura della salute, recupero sociale e ambientale. Dimensioni che Pino Rosati, presidente della cooperativa, prova a riassumere così ad Avvenire: «Noi curiamo innanzitutto la relazione. Raccogliamo indumenti, stoffe, restituendo alla comunità prodotti che custodiscono una memoria, unendo lembi di città anche molto distanti tra loro».
In piazza a Trieste insieme ad un altro centinaio di realtà ai Villaggi delle buone pratiche, che propongono esperienze sociali e modelli di sviluppo, la sartoria sociale Lister ha preparato anche le 2.200 borsine distribuite ai delegati delle Settimane sociali, «borsine che non sono solo composte di stoffe, ma anche del vissuto delle persone che le hanno usate e del lavoro di chi le ha sapute riutilizzare. Lo scopo è di offrire qualcosa di autentico e di rappresentare l’intera cittadinanza di Trieste», spiega Rosati.
Nella sede della sartoria, negli spazi concessi dal Dipartimento di salute mentale, arrivano ogni giorno capi e materiali tessili inutilizzati di cittadini, artigiani e aziende: la similpelle diventa zaino, il cappotto una borsa a tracolla, le teline d’ombrello un fresbee o un aquilone, tessuto che torna a volare «per far pace con il vento incessante di Trieste che le ha distrutte».
Soprattutto, però, qui c’è «il lavoro come elemento essenziale per la dignità delle persone», l’inserimento lavorativo che trae radici da quella rivoluzione basagliana che qui è ancora fonte d’ispirazione e modello per tutti. «Abbiamo compiuto percorsi attraverso attività espressiva, laboratori di musica, di pittura, di artigianato – racconta Rosati –. Come sartoria sociale uniamo elementi estetici alla sostenibilità sociale e umana, prima ancora che ambientale. Abbiamo accolto e inserito persone nei nostri cicli di lavoro, anche quelle che sapevano poco di sartoria, persone che hanno bisogno anche solo di una ragione per mettere un piede fuori dal letto e venire fin da noi. Poi c’è anche chi ha competenze sartoriali molto qualificate, come dei migranti afghani che hanno delle capacità e un’etica del lavoro straordinarie».
Una sartoria, dunque, che elabora proposte e risposte nel campo del lavoro, dell’espressione, della socialità, coinvolgendo l’intera cittadinanza, dai laboratori con i detenuti a quelli con i bimbi delle scuole elementari. Da Lister passano tutti: clienti, turisti, visitatori che attraversano quel parco un tempo muto, ordinato ma chiuso, non attraversato, custode dell’emarginazione dell’ospedale in cui era scaricato il brutto che la città non poteva e voleva riconoscere. Un parco che oggi è, al contrario, cuore pulsante e inclusivo del territorio.
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«Il dissesto della salute mentale è ampio – non si nasconde Rosati –. Si sono aggiunti molti giovani, che in situazioni di disagio abusano di droghe e alcol. Noi cerchiamo di fornire risposte con il nostro lavoro. Restituiamo seconde vite a stoffe e abbigliamento, certo, ma osiamo dire che in questo modo cerchiamo nuove vita e nuove possibilità a percorsi che, ahimè, non sono lineari. È la trama invisibile di quei fili che la città cerca ogni giorno di riannodare».