Gruppi di migranti prendono d’assalto i camion che raggiungono il molo dell’imbarco. A decine, gli corrono dietro, saltano sui predellini e aprono gli sportelloni per nascondersi tra le merci. I più veloci ce la fanno, altri cadono rotolando sull’asfalto
Il traghetto della Brittany Ferries in arrivo da Portsmounth entra nel piccolo porto francese di Ouistreham in tarda serata, sbarcando il suo ultimo carico giornaliero di vacanzieri settembrini. La vista di ciò che, nello stesso momento, accade appena fuori dalla stazione marittima non è certo di quelle che ci si aspetta da una sobria località balneare della Normandia. Gruppi di migranti prendono d’assalto i camion che, a tutta velocità, arrivano dalla strada statale per raggiungere il molo dell’imbarco. A decine, gli corrono dietro, saltano sui predellini e aprono gli sportelloni per nascondersi tra le merci. I più veloci ce la fanno, altri cadono rotolando sull'asfalto. Sono disperati che cercano di passare la dogana e raggiungere la Gran Bretagna attraverso il Canale della Manica. La scena si ripete drammaticamente, da un anno, tre volte al giorno, a ogni nuova partenza del traghetto. Affollata è soprattutto l’occasione della notte quando gli immigrati, ad oggi più di 150, sperano di trovare nel buio un alleato nella fuga. L’assalto ai Tir si consuma sotto lo sguardo di una piccola pattuglia della Gendarmeria che, appostata ad un incrocio, spara gas sulla folla e aspetta di vedere quanti ne cadono per terra. Non vogliono spiegare che tipo di gas sia: «è un segreto», dicono. Di certo c’è che come 'arma' dissuasoria funziona.
Peccato solo che qualcuno - a quanto pare - per colpa di quel gas finisca poi in ospedale. Quando la nave suona la sirena della partenza, su Ouistreham cala il silenzio e la tristezza. I migranti si raccolgono in piccoli gruppi e provano a inventarsi qualcosa per riempire l’attesa del prossimo imbarco. Li vedi dormire sdraiati nei giardinetti, seduti a parlare sui marciapiedi, appoggiati sugli schienali delle panchine a chattare con un cellulare usato a turno da tutti. I più intraprendenti si cimentano nel taglio di barba e capelli dei loro compagni. Quel tratto di strada è ormai la loro casa a cielo aperto da mesi. Raccontano di essere arrivati lì da Calais, la città, a 400 chilometri più a nord, che ha ospitato fino al 2016 uno dei più grandi campi profughi d’Europa. Due anni fa l’hanno sgomberato per motivi di sicurezza. Spostandosi a piedi, e comunque clandestinamente su treni e autobus, hanno viaggiato di città in città fino ad arrivare lì, nel distretto di Calvados, con la speranza di riuscire a varcare il confine con la Gran Bretagna.
Il porto di Ouistreham è più piccolo rispetto a quello delle altre stazioni marittime che collegano la Francia settentrionale all'Inghilterra, come quelli di Calais o Le Havre. Qui, a loro dire, dovrebbe essere più facile eludere i controlli. È per questo che non smettono mai di provarci, incuranti del fatto che la corsa dietro un camion in movimento può anche essere molto pericolosa. Qualcuno ha provato a infilarsi persino nel portabagagli delle auto di ignari viaggiatori. Chege, sudanese, c’era quasi riuscito. Siede imbronciato sul marciapiede circondato dagli amici che cercano di consolarlo. «Ero dentro – dice arrabbiato – ma poi la polizia mi ha trovato. Io però non mi arrendo, andrò avanti fino a quando non ci riuscirò».
Tra poche settimane arriverà il primo freddo e la vita in strada sarà più dura. Continueranno a ricevere acqua e cibo dalle associazioni locali che si prendono cura di loro ma resteranno a dormire nelle aiuole. I dormitori statali in cui potrebbero trovare riparo resteranno vuoti perché, racconta Marie-Paule, albergatrice, «devono essere sempre pronti a correre dietro un camion, per loro è preziosa ogni singola occasione». È così che, per loro, Ouistreham rischia di diventare una trappola a cielo aperto, un limbo di anime in perenne attesa di un traghetto. Ciò da cui traggono la forza di persistere in questa impresa è la semplice voglia di vivere. Hanno imparato a presentarsi come ragazzi poco più che ventenni ma basta guardarli in faccia per capire che sono in gran parte minorenni.
Omar, 13 anni, ha perso il padre quando ne aveva 5 e dice di essere stato incoraggiato a lasciare il Darfur proprio da sua madre. Con timidezza esibisce le cicatrici delle ferite provocate dalle torture subite in un campo di transito in Libia. Sui polsi c’è ancora la traccia delle corde con cui era legato; i segni al volto e sulle braccia sono ciò che rimane delle botte, delle lame e del fuoco. Dopo giorni di fermo, è riuscito a partire per l’Italia. In dieci giorni di navigazione ha visto annegare cinque suoi amici; poi, è arrivato in Sicilia. Da qui, è risalito fino a Milano e ha raggiunto la Francia passando attraverso Ventimiglia. «Voglio andare in Inghilterra per studiare – dice – perché da grande voglio fare l’ingegnere e tornare a lavorare nel mio Paese».
Anche Asim, 15 anni, vuole studiare ingegneria. Conosce l’inglese, lo spagnolo a anche un po’ di tedesco. «Ho pagato tre milioni di dollari libici per arrivare sino a qui – dice – non posso mollare proprio adesso. Dietro di me lascio morte, guerra e povertà. Dall’altra parte della Manica c’è, forse, anche per me una vita nuova. Sogno una casa a Londra, una fidanzata italiana e un lavoro in cui mettere tutta la mia intelligenza».