La gonna lunga a fiori e i capelli raccolti in una coda. Il foulard e i cerchi alle orecchie. Eccola, la zingara. La
ladra. E via con le borse strette strette, gli occhi sospettosi, lo tsunami dei pregiudizi: «Non si integrano, vivono nei campi, sono così diversi da noi». Elhame è una di “loro”: niente gonna e foulard, ai piedi le sneackers un po’ sgualcite, negli occhi la sfrontatezza dei suoi vent’anni, dodici vissuti in Italia. Se le chiedi della vita nel campo, lei strabuzza gli occhi e ti guarda con un po’ di fastidio: «Ma quale campo? Mica siam venuti in Italia per vivere in un campo!». Serba, musulmana, «zingara mi chiamano e non mi offendo. Io lavoro, e quando non lavoro studio per mettermi alla pari con le mie amiche italiane. Per dare un’istruzione a mio figlio». Ermin è bello come lei, all’asilo gioca e salta felice, «ladro e zingaro non lo sarà mai».Elhame e le altre, le donne rom con la carnagione bruna, si incontrano tutte le mattine nella bottega di stireria e sartoria Taivè, voluta da Caritas Ambrosiana. Le operatrici che le seguono lo sanno bene: «Gli stereotipi su di loro sono talmente tanti, e talmente banali, che non vale nemmeno la pena di elencarli». Eppure, contro gli stereotipi, c’è Mara, che ha convinto suo marito a lasciarla provare: «Oggi non devo più chiederli, i soldi. Li guadagno». Normalità – e integrazione – per lei è qualcuno che un giorno le ha spiegato che i soldi si possono guadagnare, non solo mendicare. La scoperta le ha cambiato la vita: prima il coraggio di chiedere il permesso a suo marito, poi un piccolo stipendio, la possibilità di togliersi dalla strada. Con Mara c’è Ramisa, la forza di un leone: «Solo il fatto di cominciare a prendere i mezzi pubblici, di dovermi confrontare con la città, mi ha cambiata». Ride spiegando che l’italiano, lei, ha imparato a leggerlo dalle fermate delle metropolitana: «Poi, quando ho potuto capire, ho cominciato a prendere il passante che è pure più comodo». Guai a chi mette in dubbio la sua dignità: «Per noi donne, donne e rom, è tanto difficile». Spiegaglielo, a chi le giudica dall’aspetto.A un certo punto della chiacchierata ti ricordano anche che rom, nella lingua romané, significa uomo e si contrappone a gagè, straniero, diverso, non rom. Si innesca una discussione, perché le parole sono armi in ogni lingua: nessuna vorrebbe che i propri figli, e le figlie, sposassero un gagè. Poi si torna a cucire. Da qualche parte si deve pur cominciare a cambiare una storia. Dalle parole o dalla macchina da cucire.