Non c’è bisogno di ricorrere a ricerche particolari per rendersi conto che, almeno da noi in Occidente, l’uomo esteriore è dappertutto. Gli abiti giusti, la bella automobile, l’ultimo iPhone, qualche tatuaggio più o meno esibito, è l’uomo del fuori, delle cose che appaiono. In questi anni può avere anche patito la crisi ed essere preoccupato, toccato dagli affanni del vivere, ma la sua testa resta in esterni, scollegata dall’uomo interiore che giace in lui. L’invito all’interiorità, lo sappiamo, ha attraversato i secoli. Dal “conosci te stesso” socratico a Marco Aurelio: «Scava nella tua interiorità: dentro di te sta la fonte del bene» (“Contro le lusinghe del mondo”). Poi i grandi della Chiesa, Agostino per tutti: «Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso» (“La vera religione” 39, 72). Sulla scala dei pensatori e dei Santi l’invito a pensarsi, meditare, stare con se stessi è sempre stato potente. Ma oggi ci domandiamo quanto sia praticabile in un mondo dove a proliferare sono le mille suggestioni rivolte all’uomo esteriore e a lui soltanto. L’uomo interiore non è cercato, non è propagandato e chi lo vuole trovare deve fare per conto suo, con dedizione, ostinazione, sacrificio, fermezza. L’esempio supremo dell’uomo interiore è Gesù nel deserto, solo per quaranta giorni, in realtà a colloquio con il Padre. Per noi, oltre al Padre c’è il Figlio, c’è lo Spirito, ci sono Maria e i Santi e non certo impossibile, e appagante è rivolgersi a loro. Fuori dalla porta, però, va lasciato l’uomo esteriore, cosa non facile perché il nostro “esterno” è gravato anche da impegni, scadenze, preoccupazioni, bisogni. L’esterno è pieno e l’interno tende a essere vuoto con il risultato che così ci conosciamo a metà e, a chi ci chiedesse chi siamo, non sapremmo bene cosa rispondere. E però onestamente dobbiamo chiederci se davvero c’importa sapere chi siamo. Perché se non c’importa, se ci basta ciò che appariamo, vuol dire che per noi a contare è solo l’uomo esteriore. Che, beninteso, la sua vita la fatica pure, e meritoriamente, senza però domandarsi della persona che è dentro di lui. Senza domandarselo e dunque senza cercarla anche perché nessuno assicura che, mettendosi a cercarla, poi la trovi. Chi mi dice che andando da un esterno di luci e schiamazzi a un interno di ombra e silenzio io sia atteso da una migliore parte di me? Quaesivi et non inveni, era il titolo di un libro del 1973 di Augusto Guerriero, giurista e giornalista allora famoso. “Ho cercato e non ho trovato”. Anche l’altro me stesso può rifiutare l’incontro. Intravedere Dio e fingere di non vederlo. Nascondersi nella vasta rete del dubbio, questo infaticabile nostro compagno di viaggio. Dio, in fondo, è più comodo aspettarlo.
Se c’è e se è vero che si è manifestato a chi neanche si dava la pena di aspettarlo, perché non potrebbe comparirmi improvvisamente davanti? Se lo facesse, che sia io la prima o la seconda delle mie due metà, saprei che Dio c’è e che, come si è rivelato una volta, l’ha fatto di nuovo e l’ha fatto con me. Se ho atteso che Dio arrivasse, Dio è arrivato. Crederei, allora. Certo, può succedere perché Dio è sorprendente e tutto può succedere. Ma la strada del faticoso, inquieto e duro, talvolta disperato cercare, resta la strada maestra. E lo resta non perché noi dobbiamo essere necessariamente premiati dopo la fatica di averla percorsa, ma perché cercare ci rende persone degne e vive, persone in cammino. Si potrà non trovar nulla, all’inizio e anche dopo. Ma poi, quando tutto sembra inutile, come l’uomo della parabola evangelica (Mt. 13, 46), si potrebbe scorgere qualcosa in un campo. Qualcosa? Ma è un tesoro, è il Regno dei cieli. E tutto allora diventa possibile, anche vendere ogni bene terreno e, con il ricavato, comprare quel campo.