martedì 4 giugno 2024
Questa cooperativa sociale dà lavoro oggi a 160 persone che reimpiegano tessuti eccedenti di alta moda. La fondatrice, Anna Fiscale, racconta come ha iniziato
Anna Fiscale

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Un’iniziativa di successo che oggi dà oggi a centinaia di donne vittime della tratta, ex detenute, disoccupate o in condizioni di fragilità, recuperando stoffe e tessuti eccedenti dei grandi marchi della moda. “Quid” è il nome del progetto lanciato nel 2013 fa da una giovane imprenditrice all’epoca neolaureata, Anna Fiscale, che ora riveste la carica di presidente. All’epoca, racconta, non immaginava i risultati che può vantare oggi la sua azienda: 160 dipendenti, oltre 686mila accessori e capi di abbigliamento prodotti recuperando chilometri di tessuti, 293 km dei quali solo l’anno scorso. Fiscale è emozionata: domani parlerà della sua avventura a Piazza Affari, in Borsa, in un convegno intitolato Inclusività competitiva organizzato da Edi-Eccellenze d’impresa, società di consulenza strategica fondata da Luigi Consiglio. «Quid - racconta - nasce come cooperativa sociale dall’intuizione di inserire persone in condizioni di fragilità come le donne e lavorare materiali che non servivano più all’industria della moda. È una storia che si intreccia alla mia vicenda personale: ho studiato Economia all’università con un focus sull’empowerment femminile che mi ha visto lavorare progetti analoghi in India e ad Haiti e la commissione europea nello studiare quelle che potevano essere strategie per le donne per creare attività. Quando sono tornata nella mia città, Verona, è nata l’idea di lavorare su tessuti di ottima qualità che le aziende non usavano più perché le acquistavano in sovrannumero o perché lo stilista aveva puntato su un colore che poi è passato di moda…»

Partiamo delle vostre dipendenti: quante sono e da dove arrivano?
In tutto sono 160: per l’80% sono donne quasi tutte da vissuti di fragilità come vittime di violenza o uscite dalla tratta della prostituzione o tratta lavorativa, persone con invalidità di vario tipo. Abbiamo 22 nazionalità diverse, soprattutto dall'America Latina. In più abbiamo due laboratori nel carcere di Verona dove impieghiamo venti persone che, una volta scontata la pena, possono lavorare fuori nel nostro laboratorio. Siamo in rete con i servizi sociali, associazioni come la Comunità Papa Giovanni XXIII per la tratta o i Sert per le dipendenze. Abbiamo costruito una bella rete con le realtà del territorio.

Fate anche formazione?
Certo: quando assumiamo chiediamo loro di base una buona manualità. Di solito l’iter formativo, dai 6 ai 12 mesi, passa dal controllo qualità e packaging fino alle fasi più semplici a quelle più complesse delle macchine da cucire. In più abbiamo un ufficio persone e progetti con una welfare officer che si occupa di aiutarle ad aprire un conto in banca o trovare un medico di base. Offriamo anche corsi di digitalizzazione e una psicoterapeuta che viene una volta a settimana. Nel settore produzione ci sono casi di donne che hanno perso lavoro, dopo che qui nel Veronese diversi laboratori di sartoria o aziende di confezione hanno chiuso o trasferito la produzione all’estero. In tante si sono trovate senza lavoro, e noi le stiamo accompagnando alla pensione, dopo averle assunte in Quid. Da parte loro, portano un “know how” importante e possono fare formazione per le nuove arrivate.

Qualcuna è stata poi assunta fuori?
In tante trovano poi altre opportunità in aziende più strutturate e ne siamo solo che felici. Qualche anno fa abbiamo lavorato con ragazze da San Patrignano che abbiamo formato qui e che sono poi tornate nelle loro città dove hanno trovato lavoro in dei laboratori di sartoria o addette alle vendite di una catena importante.

C’è una storia che l’ha colpita particolarmente?
Una ragazza che abbiamo conosciuto in carcere: quando è uscita ha continuato a lavorare con noi fino a diventare una delle coordinatrici di una parte del reparto qualità. È divenuta un punto riferimento per tante altre donne che vedono in lei un modello, una persona che ce c’ha fatta.

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