Una direzione lunga e sfiancante, tesa, senza esclusioni di colpi. Renzi se le dà di santa ragione con D’Alema e Bersani, e nonostante la (vana) ricerca di un documento unitario resta l’immagine di un Pd che, sulla riforma del lavoro, i suoi conti potrebbe pericolosamente regolarli in Parlamento. Eppure Renzi ci aveva provato a ricucire mettendo sul tavolo due ingredienti nuovi. «Sono pronto a riaprire la sala verde di Palazzo Chigi. Sfido Cgil, Cisl e Uil su tre temi: una legge per la rappresentanza sindacale, il salario minimo e la contrattazione di secondo livello», apre il premier dopo i suoi reiterati «no» al «compromesso». Secondo ingrediente, il chiarimento sul reintegro: «Rimarrà per i licenziamenti discriminatori e quelli disciplinari».Via l’articolo 18, invece, quando il lavoratore è messo alla porta per motivi economico- organizzativi: in questi casi ci sarà l’indennizzo economico crescente con l’anzianità. Per pezzi della minoranza è ancora poco, e quando la linea del premier rifluisce nell’ordine del giorno finale letto dal responsabile economico Taddei, il pallottoliere segna 130 «sì», 20 «no» (l’ala dura bersaniana e civatiana) e 11 astenuti (i tessitori che fanno riferimento a Speranza). A prima vista potrebbe sembrare un trionfo per Renzi, visto che il premier incassa l’80 per cento del consenso, andando oltre i seggi assegnatigli dalle primarie. Ma considerando che al Senato i rapporti di forza tra renziani e 'vecchia guardia' sono invertiti, si può dire che il jobs act è ancora sul filo del rasoio. Nonostante il premier, nella replica notturna, inviti a «votare insieme in Parlamento» cercando di vincolare tutti all’esito della direzione. «Ma i gruppi sono indipendenti», già avvisa Fassina. In jeans e camicia bianca, Renzi arriva agguerrito (e in ritardo, alle 18) ad una maratona che durerà più di quattro interminabili ore. «Gli elettori hanno detto al Pd 'cambiate voi l’Italia'. Io non ho paura del cambiamento». Si tira dritto. «Il compromesso non è a tutti i costi, basta tabù. Le responsabilità del sindacato sono state drammatiche», insiste il premier sfoderando il 40,8 per cento di maggio. I toni sono quelli usati durante il tour negli Usa. I «poteri forti» diventano «poteri aristocratici», dunque non democratici. Ma margini ce ne sono ancora. Renzi lascia una porticina aperta. Idem Orfini e i giovani turchi. Idem i tessitori Speranza ed Epifani, che mentre gli altri parlano scrivono e riscrivono con il vicesegretario Guerini un testo che possa andare bene a tutti. Ma mentre loro si 'distraggono' per tenere unito il partito, sul palchetto degli interventi accade di tutto. Per la prima volta nell’era-Renzi ci salgono tutti i big. E D’Alema è tra i primi. Cita Stiglitz, accusa il premier di sbagliare tutto, di non saperne e capirne abbastanza, né più né meno. Poi Bersani, che la metta sulla gestione del partito: «No al metodo-Boffo», dice tirando in ballo fuori contesto la vicenda dell’ex direttore di
Avvenire. «Il mio è al massimo un metodo buffo», dice nella replica il segretario. La questione-partito fa da sfondo al dibattito sul lavoro. «Noi pensiamo ai nuovi deboli, non difendiamo una cosa di 44 anni fa», incalza il premier. «Ci sono profili di incostituzionalità, e poi l’articolo 18 è cambiato da 2 anni. No ai 'dominus', Matteo», gli ribatte Gianni Cuperlo. In mezzo le seconde file si sfottono e attaccano. La partita è delicata. Alle 22, il premier arriva alle conclusioni teso e spettinato. Lo hanno appena informato che la trattativa sul testo unitario è saltata. Ma tutto sommato resta calmo e determinato di fronte all’imminente conta (prima di lui, il ministro Poletti si era lanciato quasi in una mozione degli affetti: «Se pensassi di aver massacrato i lavoratori mi sentirei in imbarazzo... »). Sa che il grosso è con lui. E sa che altri dissidenti rientreranno in aula. Lui lavorerà in questa direzione. D’altra parte Napolitano in mattinata era stato chiaro: «Avanti ma senza strappi», gli ha consigliato il capo dello Stato durante un faccia a faccia che ha preceduto la direzione. Renzi era salito al Colle per fare il punto dopo il tour negli Usa. Il presidente della Repubblica è con lui, ma il prezzo non può essere frantumare il Pd e arrivare allo sciopero generale. Perciò ora la trattativa continua al Senato e unisce jobs act e stabilità. Le tutele universali che dovrebbero compensare l’addio al reintegro devono entrare nella manovra. «Ci mettiamo 1,5 miliardi, mai accaduto prima», spiega il premier. «È poco», avvisano i dissidenti. È il nuovo fronte dei prossimi giorni.