mercoledì 18 marzo 2020
Dossier con testimonianze e prove raccolte da Medu. «Dal 2017 con l'intesa Roma-Tripoli aggravati abusi e violenze»
«Libia, la fabbrica della tortura». La denuncia di 3mila superstiti
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Il 2 febbraio 2017 l’Italia siglava il memorandum con Tripoli. L’11 maggio veniva accolta nel nostro Paese una delegazione di cui faceva parte al–Milad, il guardacoste Bija accusato d’essere trafficante di uomini, armi e petrolio. A partire da allora la Libia è diventa “La fabbrica della tortura”.
Lo confermano oltre tremila testimonianze raccolte da Medici per i diritti umani (Medu). Un rapporto basato su una tale mole di prove da ricordare il “Nunca mas” argentino, il poderoso atto d’accusa contro la “fabbrica dei desaparecidos”.
In Libia la tortura è istituzionalizzata, finalizzata a ottenere denaro e a sottomettere i migranti. Anche le forme della più impensabile depravazione sono finalizzate al massimo profitto politico ed economico. «Eravamo in 350 in quella prigione, ci sono rimasto per 5 mesi, fino al dicembre scorso. Dentro Ossama Prison ci hanno picchiato e torturato. Vedi la ferita qui sull’orecchio? Me l’hanno fatta con un lucchetto», racconta un sudanese di 19 anni giunto in Sicilia dopo essere stato messo su un gommone partito da Zawiyah.
«L’attendibilità delle informazioni fornite dai testimoni è stata verificata in base ai riscontri oggettivi disponibili come ad esempio l’effettiva esistenza dei centri di detenzione nei luoghi e nei tempi riferiti, l’esistenza di testimonianze, informazioni, rapporti di soggetti terzi», spiega Medu. Le organizzazioni citate nel dossier curato da Alberto Barbieri e a cui ha lavorato una squadra di 15 esperti, «sono state direttamente interpellate per verificarne l’effettiva presenza nei luoghi e nei tempi riferiti dalle testimonianze».
L’85% dei migranti e rifugiati giunti dalla Libia in Italia ha subito torture e trattamenti inumani e degradanti: «il 79% è stato detenuto o sequestrato in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico sanitarie, il 75% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, il 65% gravi e ripetute percosse». Migliaia sono stati sottoposti a «stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, �falaka� (percosse alle piante dei piedi), scariche elettriche e torture da sospensione e posizioni stressanti (ammanettamento, posizione in piedi per un tempo prolungato, sospensione a testa in giù, ecc)». Una tendenza che «addirittura si è aggravata» a partire «dal 2017, anno di sigla del Memorandum Italia–Libia sui migranti».
A maggio di quell’anno giunse nel Cara di Mineo e venne poi accolto a Roma in sedi del governo il comandante Bija, rais del porto di Zawiyah, direttamente coinvolto con la milizia al Nasr nella gestione del più grande centro di prigionia della Libia. E a Mineo si trovava un gran numero di vittime ascoltate da Medu, oltre a denunce raccolte presso presso altre strutture tra cui il “Centro Psyché” per la riabilitazione delle vittime di tortura.
La maggior parte degli abusi, commessi adoperando anche animali, è irriferibile. «Un’altra cosa che ho visto fare di fronte a me è far spogliare un detenuto e sotto la minaccia dei fucili puntati costringerlo ad un rapporto sessuale con un altro uomo. Un giorno abbiamo provato a scappare ma appena le guardie hanno capito hanno cominciato a sparare: sono morti in quattro», ha raccontato un altro subsahariano. Medu conferma che in Libia si trovano «11 centri di detenzione formalmente controllati dalle autorità, mentre nel corso degli ultimi anni sono stati censiti 63 centri di detenzione su tutto il territorio libico».
Uno dei luoghi peggiori in cui stare è quello che i sopravvissuti chiamano «Ossama Prison», dal nome del capo torturatore, membro della milizia al–Nasr comandata dai cugini Kachlav e a sua volta cugino di Bija. Le sue foto sono state pubblicate per la prima volta da Avvenire il 21 febbraio 2019 e da allora è indagato da diverse procure italiane.
Pochi giorni dopo l’arrivo di Bija in Italia una ivoriana di 40 anni trasferita a Mineo ha fornito uno dei racconti più duri. I segni sul corpo non avevano bisogno di altri riscontri. Le uniche parole che possiamo qui riportare sono solo l’inizio di un film dell’orrore: «Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi hanno fatto di tutto! Ogni giorno ci prendevano e ci portavano da alcuni uomini». Da allora si colpevolizza ossessivamente: «Sono maledetta».

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