Un ragazzo di origine straniera alla fermata dell'autobus - Ansa
È accaduto in Italia e ancora più marcatamente in Germania, come in altri dodici Paesi in giro per il mondo. Nei primi vent’anni del nuovo millennio, il declino demografico è stato evitato solo grazie ai flussi di cittadini migranti che hanno varcato i loro confini e all’interno si sono stabiliti. Uno studio pubblicato l’8 luglio dal Pew Research Center di Washington ha calcolato in quale misura i nuovi residenti venuti dall’estero abbiano influito sui bilanci demografici dei singoli Paesi. Tra il 2000 e il 2020, la popolazione globale è aumentata di circa 1,7 miliardi di persone. Non dappertutto, però, in maniera omogenea e seguendo le stesse dinamiche. Così, secondo l’istituto statunitense, la popolazione italiana è cresciuta di 2,7 milioni di persone nell’arco dei vent’anni presi in considerazione, ma sarebbe diminuita di 1,6 milioni di individui se non fosse stato per l’arrivo di migranti principalmente provenienti da Romania, Ucraina e Albania. Lo studio mette a confronto solo le cifre relative all’inizio e alla fine del periodo considerato, ma è utile ricordare che i dati Istat su base annua riferiscono di una diminuzione progressiva della popolazione residente in Italia in atto a partire dal 2015, configurando per la prima volta in novant’anni una fase di declino demografico.
In Germania, i flussi migratori sono riusciti a sventare un decremento della popolazione in maniera ancora più evidente: tra il 2000 e il 2020 si è registrato un aumento di 1,7 milioni di persone, ma i residenti complessivi si sarebbero ridotti di oltre 5 milioni senza l’arrivo di polacchi, siriani, kazaki e romeni. Altri Paesi in cui, grazie ai migranti, si è evitato il segno meno nel bilancio demografico sono il Portogallo e la Repubblica Ceca. Oltre i confini del Vecchio Continente, balza all’occhio il caso degli Emirati Arabi Uniti dove la crescita è stata di 6,1 milioni di persone. Senza nuovi residenti provenienti da Asia meridionale ed Egitto nel 2020 si sarebbero registrati 210.000 abitanti in meno rispetto al 2000. La variazione demografica complessiva osservata dal Pew Research Center è calcolata sulla base delle stime del World Population Prospects 2022 delle Nazioni Unite, e sempre da statistiche Onu di quell’anno viene tratto il cosiddetto International migrant stock, cioè il numero di persone nate in un Paese diverso da quello in cui risiedono, compresi i rifugiati. Il dato non misura solo gli arrivi recenti. Le differenze tra i migranti del 2000 e quelli del 2020 non sono solo dovute alla nuova immigrazione, ma anche a morti e partenze dei precedenti immigrati.
Ora, a livello globale, la tendenza è quella verso un calo delle nascite. «In tutto il mondo, le donne stanno avendo meno figli. Sempre di più rimandano la maternità o vi rinunciano, di pari passo con l’aumentare del numero medio degli anni della loro istruzione, con l’incremento del tasso di partecipazione alla forza lavoro e con l’accessibilità a metodi affidabili di pianificazione familiare» rilevano i curatori dello studio. Così tra il 2000 e il 2020 il tasso di fecondità totale, cioè il numero medio di figli per donna in età feconda (15-49 anni), è sceso da 2,7 figli a 2,3, sempre più vicino a quel limite di 2,1, sotto il quale non è assicurata a una popolazione la possibilità di riprodursi e di rimanere stabile. In Italia l’Istat attesta oggi un tasso di fecondità totale che è quasi della metà, di 1,2 figli.In altri diciassette Paesi è andata anche peggio, e l’immigrazione è riuscita solo a mitigare, non a compensare, le perdite di popolazione. Un esempio? In Giappone, il calo di oltre 1,1 milioni di persone nei primi vent’anni del millennio sarebbe stato esattamente il doppio (2,2 milioni) se non fossero arrivati cinesi, sudcoreani, vietnamiti e filippini. In un territorio dove nascono pochi bambini e per tradizione si applicano vincoli rigidi alle politiche migratorie, gli stranieri che hanno fatto ingresso entro i confini nazionali non sono in questo caso bastati.