![Un'immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli (Ansa) Un'immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli (Ansa)](https://www.avvenire.it/c/2018/PublishingImages/c0c3265353d84e14a4e958e16a345038/libia1943.jpg?width=1024)
Un'immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli (Ansa)
«Venite a tirarci fuori, vogliamo tornare a casa, siamo qui a Zawiya, stiamo morendo ogni giorno. Oggi ne sono morti due, siamo rinchiusi in questa prigione e usati come schiavi a lavorare». È un grido di dolore, l’appello rivolto attraverso un video al governo nigeriano, alle Nazioni Unite e all’Europa, fatto girare tramite Whatsapp da un gruppo di nigeriani, imprigionati in un luogo di detenzione nella cittadina situata nella costa nord-occidentale della Libia. Una richiesta di aiuto per uscire dall’inferno libico e tornare nei propri Paesi d’origine, cui si aggiungono centinaia di messaggi e commenti di giovani migranti pubblicati negli ultimi due mesi sulla pagina Facebook del documentario Reserve slaves (Schiavi di riserva), creata dal regista italiano Michelangelo Severgnini.
Ragazzi e ragazze, di età compresa fra i 18 e i 25 anni, che sopravvivono nei quartieri ghetto di Tripoli, Khomis, Sorman, Zuwara, dove si rintanano i migranti di colore, molti dei quali in Libia erano arrivati anni fa per lavorare, costretti ora a sfuggire alle milizie locali che gestiscono le prigioni della zona. Vite in balia del-l’orrore, storie più volte documentate da Avvenire nei suoi reportage e nelle sue inchieste. «I ghetti, dove si ritrovano i neri per proteggersi dalle violenze dei libici (e mi riferisco anche ad adolescenti armati che li spogliano di tutto se li incontrano per strada) – spiega Severgnini – funzionano come serbatoi di schiavi per le milizie irregolari, che all’occorrenza effettuano retate prelevando con la forza la manodopera di cui hanno bisogno per i lavori nei campi, la costruzione di edifici e strade». La schiavitù in Tripolitania non è episodio, «ma è diventata sistema di produzione, perché – continua – anche quei rari guadagni che riescono ad ottenere i migranti attraverso l’impiego in aziende locali, non possono essere spediti a casa dato che in Libia i pochi istituti di credito del territorio non ne consentono l’invio all’estero. Al tempo stesso, numerosi sono i casi di datori di lavoro che si sono riappropriati dei soldi con un’arma in mano, buttando per strada il migrante sfruttato».
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Quando possono attraverso internet questi giovani stanno offrendo una descrizione della loro non-vita nel Paese nordafricano, di certo un porto non sicuro, arrivando persino a fare i nomi dei loro carnefici e a supplicare i loro governanti di riportarli in patria. A.A., un giovane nigeriano di cui riportiamo solo le iniziali del nome per tutelarne l’incolumità, in un messaggio vocale spedito l’11 agosto scorso, racconta: «Ho attraversato il Sahara, con la speranza di arrivare in Europa, ma quando sono arrivato qui la storia è cambiata in un modo che non mi aspettavo. Ragazze vendute come schiave del sesso e ragazzi obbligati a lavorare sotto la minaccia delle armi nelle fattorie. Se ti rifiuti ti sparano alle gambe o ti fanno secco. Qualche volta riesci a imbarcarti, ma poi vieni ripreso e riportato in prigione, soltanto se paghi di più Oussama (è il nominativo di un ghanese, fatto da diversi migranti che sostengono appartenga a una organizzazione internazionale, ndr) ti promette di prendere una barca più sicura che eluderà i controlli della guardia costiera. Le nostre famiglie si indebitano, vendono case e proprietà per riscattarci dalle reti di schiavisti, che riscuotono il denaro prelevandolo direttamente nelle nostre città attraverso i loro complici». Al forte desiderio di tornare a casa si contrappone però l’onta di aver rovinato la propria famiglia e di tornare a mani vuote.
L’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) ha calcolato che nei primi sei mesi dell’anno sono stati 8.938 i rimpatri di persone provenienti da 30 Paesi dell’Africa e dell’Asia, un numero estremamente esiguo rispetto alle 700mila presenze, stimate in Libia dall’Organizzazione nel novembre 2017.