Ci sono stati giorni – i primi di questa interminabile quarantena nazionale – nei quali per una sorta di moto popolare ci si affacciava alla finestra e s’intonava l’inno di Mameli, in un crescendo di iniziative spontanee assecondando le quali si finiva col cantarne note e strofe anche più volte al giorno. È passata in fretta, arrendendosi all’evidenza che non ci è chiesto uno scatto ma il fiato di una maratona, e di ben altro si necessita per fermare il nemico. Ma intanto cantare le parole che evocano una nazione non rassegnata ma che, anzi, s’è desta proprio nella prova è servito a sentirsi tutti alle prese con la stessa salita, senza esenzioni né sotterfugi possibili. In tempi di reclusione collettiva come difesa estrema all’avanzata di un’armata invisibile, è parso naturale ritrovarsi in un simbolo condiviso per farsi coraggio cantando (non solo le ottocentesche strofe con l’elmo di Scipio, per la verità). Di quegli inizi di traversata dell’emergenza sono rimasti, appesi ai balconi, i tanti tricolori, come quando la Nazionale si gioca un trofeo, e in fondo è a un successo finale che pensiamo sperando che tutto questo passi presto: «Dov’è la vittoria?» si chiedeva anche Mameli, forse presàgo che a noi italiani nulla è regalato.
Ai giorni dei cori sono succeduti, una stretta sulla vita quotidiana dopo l’altra, quelli del silenzio, della consapevolezza che non c’è una soluzione rapida né semplice a quella che ha preso i contorni di una tragedia nazionale, con morti (troppi morti», per dirla con l’esclamazione sospirata dall’arcivescovo di Milano Delpini domenica nella Messa dentro il Duomo deserto), eroi, sopravvissuti, grandi gesti, strategie, bollettini, bilanci di vittorie e sconfitte. Abbiamo compreso tutti che quello che stiamo fronteggiando è un dramma collettivo che non risparmia nessuno, non si ferma davanti a Palazzi, chiese, differenze di ceto sociale e di speranze di vita, neppure – com’era sbrigativamente parso in quei primi passi dentro la crisi – di fronte all’anagrafe: tutti siamo nel mirino di un virus inafferrabile e indifferente. Duro ma necessario è stato così prendere atto che la realtà non si modifica, né si comprime. La prova va affrontata fino in fondo, e la sola risorsa che abbiamo tutti è la capacità di saperlo fare insieme. Per questo, nei giorni più cupi, con i decessi quotidiani sempre sopra la spaventosa cifra di 800 (persone, vite, famiglie, storie, figli e padri e madri, comunità, donne e uomini come me e te), è tornata la necessità di afferrarsi a un simbolo comune, a quella bandiera che ci riassume nella sua colorata semplicità. Ci siamo dentro tutti, nei giorni della gioia e in quelli dello sgomento. Perché contare ormai 12.438 morti – è la spaventosa contabilità alla quale siamo arrivati ieri sera – vuol dire essere immersi in un lutto nazionale del quale prendere coscienza come cosa che tocca l’anima di ciascuno.
Ecco perché è suonata assolutamente opportuna l’iniziativa dell’Associazione dei Comuni d’Italia (Anci) che ha chiesto a tutte le amministrazioni locali di accomiatarsi da questo angoscioso mese di marzo facendo scendere a mezz’asta le bandiere issate su edifici pubblici, in aule consiliari, davanti alle istituzioni. Anche la Santa Sede, sentendosi pienamente parte di questo vasto cordoglio, ha abbassato i suoi vessilli. Un omaggio corale ai morti, ma anche una forma di abbraccio significativo e silenzioso come solo certi abbracci sanno essere, stringendo chi piange un proprio caro neppure più visto dopo un frettoloso ricovero o in una casa di riposo resa inaccessibile dall’isolamento, e poi chi lotta per sopravvivere, chi si prodiga per salvare vite, chi cerca senza sosta farmaci e vaccini, persino – e certo non ultimo nella catena della gratitudine – chi serve umilmente il bene di tutti su avamposti inimmaginati, come la cassa di un supermercato, la raccolta della spazzatura, la sepoltura dei morti.
Stringersi nel lutto nazionale non è retorica, non lo dovrebbe essere mai, non lo è stato certamente ieri. Nel minuto di raccoglimento che l’Anci ha invitato a osservare alle 12 c’era forse – lo speriamo – anche la definitiva persuasione che nulla di ciò che ferisce il prossimo ci può essere più estraneo, d’ora in avanti. Non com’è stato sinora, almeno. E’ andata in pezzi l’illusione che una piaga riguardi sempre altri – la Cina, agli inizi – e che noi ne saremo risparmiati per qualche misterioso merito. In quelle bandiere chine davanti al duro linguaggio dei fatti c’è un Paese che sta forse rinascendo nuovo dal suo punto più basso. Si risorge, certo, ma insieme.