Siamo di fronte a un problema di decoro pubblico o è in gioco una questione di umanità? Con il freddo e le nuove restrizioni imposte da Comuni, si riaccende una grande emergenza sociale - Ansa
Mostafa è morto a Torino poche ore fa, Filippo è morto qualche giorno prima di Natale ad Arzachena in Sardegna, stessa sorte per un ghanese trovato domenica scorsa a Formigine, nel Modenese. Scarti. Abbandonati a loro stessi, alle prese con il freddo dell’inverno, spesso derisi, maltrattati, picchiati e dati a fuoco. Un problema per tutti, anche per chi vorrebbe aiutarli. Nell’Italia alle prese con la pandemia e con la crisi politica, accade anche questo. E non è la prima volta. Mostafa Hait Bella, di origini marocchine, vende fiori in uno dei mercati del centro di Torino. Poi perde il lavoro e la casa, vive in auto e poi perde anche quella. Allora vive per strada. S’arrangia, molti nel quartiere lo conoscono. Dorme nel dehors di un bar: ogni mattina a svegliarlo sono proprio i gestori del locale.
E sono loro a trovarlo morto ieri mattina alle 7.30. Cause naturali, pare. Aveva 59 anni. Adesso nella rete circola una foto di lui, con i capelli crespi e grigi e una chitarra gialla in mano. La morte di Mostafa arriva in una città che discute da giorni proprio sul destino dei senzatetto in strada. Un problema di decoro pubblico e di sicurezza, ma anche una questione di umanità resa più assillante dalla pandemia e dalla crisi. Una questione sulla quale Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, è più volte intervenuto e che sarà tema di due incontri previsti in settimana con le istituzioni locali. «Spesso si fa un discorso teorico, senza avere mai visto in faccia queste persone – spiega l’arcivescovo –. Non servono solo a dormitori di massa».
Dura la reazione della Comunità di Sant’Egidio di Torino che dice: «Resta la cruda realtà di una morte evitabile, che chiede di non essere classificata come fatalità o, persino, come libera scelta, ma chiama alla responsabilità di tutti, a partire dalle istituzioni». Mostafa «era una persona conosciuta da tempo» viene spiegato dai servizi sociali comunali che lo descrivono come «molto gentile, cordiale ed educato », ma che aveva rifiutato «di trascorrere la notte in una casa di accoglienza ». L’ultimo incontro con il personale del servizio itinerante notturno, è avvenuto proprio sabato scorso. Più incerta, per adesso, la storia di un uomo di 60 anni, originario del Ghana irregolare e senza fissa dimora, che è stato trovato morto domenica pomeriggio in un casale abbandonato di Formigine, nel Modenese.
A dare l’allarme è stato un connazionale che è stato il primo a trovarlo nel rifugio. L’uomo era adagiato nel proprio letto. Pare fosse malato e che vivesse lì da alcuni mesi per ripararsi dal freddo, in una stanza spoglia, due pentole sul vecchio pavimento di cotto, sacchi di plastica piene di vestiti. Un’ombra svanita. Non un’ombra ma concreto bersaglio di angherie era invece Abdellah Beqeawi, di 54 anni, per tutti Filippo, clochard anche lui marocchino che viveva da decenni ad Arzachena, in Gallura, morto ufficialmente per infarto la sera del 22 dicembre scorso, nel parcheggio sotterraneo di un supermercato. La realtà che sta emergendo è però un’altra.
La Procura di Tempio Pausania ha aperto un’inchiesta, sono indagati sei ragazzini, di cui cinque minorenni (tra i 14 e i 16 anni di età), per le percosse subite da Filippo. Secondo quanto si vede in alcuni video, che da tempo girano sui social, nei giorni precedenti la morte del clochard. Si vede Filippo aggredito dai ragazzini più volte. In un video un ragazzo lo colpisce con un calcio alla schiena; in un altro, un ragazzo fa finta di offrirgli una sigaretta, per poi spegnergli la cicca sul palmo della mano, prima di colpirlo alla pancia con un calcio. Anche Filippo aveva scelto di vivere in strada nonostante la Caritas e il Comune gli avessero offerto un alloggio. «C’è un sentimento che sta crescendo fatto da una sorta di ostilità rispetto a coloro che sono in qualche modo diversi rispetto alla nostra ordinarietà», dice Pierluigi Dovis da vent’anni alla guida della Caritas diocesana di Torino che aggiunge: «È necessario ridefinire un modello di welfare locale che in molte parti d’Italia si è iniziato a costruire ma che non è concluso. Ma dobbiamo accelerare la capacità di intervento intorno alla persona». E poi ancora: «Servono investimenti che non possono essere delegati al solo volontariato oppure solo alla Chiesa. Si tratta di una situazione complessa che non può essere risolta con soluzioni facili».