L’ultimo round di Matteo Renzi da presidente di turno della Ue è un combattimento in salita. Il miraggio della flessibilità nella versione 'estesa' che vorrebbe Palazzo Chigi resta sullo sfondo di questa notte brussellese che in una manciata di ore vede consumarsi il più breve Consiglio Europeo degli ultimi anni (chiuso nella notte, senza la tradizionale appendice della mattina seguente). Renzi non ama particolarmente questa liturgia dei vertici comunitari, forse ancor meno del 'teatrino' della politica di casa nostra, e non si fa remore a nasconderlo: «Che botta di vita..., è l’hashtag della giornata», commenta ancor prima dell’inizio del Consiglio, fra una sosta fuori programma (con tanto di stop impresso al corteo di auto) in una cioccolateria per un caffè e uno scatto di corsa per raggiungere il palazzo del Pse, sede del tradizionale pre-summit. In ogni caso i tempi lunghi, lunghissimi delle decisioni a 28 Stati impediscono al presidente del Consiglio, giunto determinato come sempre nella capitale belga, di chiudere l’atteso semestre europeo con un risultato eclatante da 'sbandierare' agli elettori italiani. È lui stesso a issare metaforicamente bandiera bianca, quando riconosce che sulla richiesta di nuova flessibilità rispetto a quella concessa dalle attuali regole bisognerà aspettare gennaio, quando ci sarà la già annunciata «comunicazione della Commissione europea». Al tirar delle somme, il maggior risultato che Renzi porta a casa dal Consiglio di fine 2014 è l’ennesimo attestato di fiducia di Jean-Claude Juncker: «Sì, ho fiducia nel governo Renzi e molta simpatia per lui. Quando mi scrive che farà le riforme strutturali io gli credo, per questo abbiamo dato più tempo all’Italia come alla Francia», professa il presidente della Commissione in un’intervista a
Sky Tg24. È un altro viatico favorevole, dopo quelli giunti anche da Berlino negli ultimi giorni, in attesa del verdetto di marzo, quando Bruxelles darà il giudizio finale sulla nostra Legge di stabilità. Quando, forse, si avrà un quadro più chiaro anche sulla maggiore 'elasticità' chiesta sui conti nazionali. Dettagli su quest’ultimo punto per ora non ci sono, troppe sono le incognite che circondano ancora il via operativo al fondo Efsi che è il cuore del piano Juncker. Sembra certo che non verranno conteggiati nel deficit e nel debito i contributi nazionali al fondo (quanti Roma ancora non ha deciso), incerto resta invece il destino delle quote di cofinanziamento nazionale ai progetti portati avanti con soldi Ue. Quanto allo scorporo globale degli investimenti produttivi (la cosiddetta 'golden rule') rimane una chimera. Anche Juncker riconosce che «la situazione è più complicata perché il Patto di stabilità non permette a priori» questo trattamento reclamato da Roma. E Donald Tusk, il polacco che per la prima volta ha presieduto il Consiglio, ha ribadito che gli investimenti, ma anche «l’impegno a riforme e finanze pubbliche sane » rimangono i tre cardini del programma per riportare l’Europa su un sentiero di crescita. Sul piano ufficiale la linea del governo allontana il pessimismo. In una pausa dei lavori Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, scende in sala stampa per riferire che Renzi è «molto soddisfatto » e rivendica come «un passo avanti» la possibilità di usufruire ancora dei fondi strutturali legati al programma terminato nel 2013 ma non impiegati (facoltà che, tuttavia, è già oggi concessa dalla Ue, anche se Gozi assicura che sarà prolungata fino al 2020). Di certo la 'concessione' sullo scomputo delle sole quote versate al fondo Efsi non può bastare a Renzi. E su questo cerca sponde: ne parla in un colloquio di 10 minuti col presidente francese Hollande. Con Angela Merkel, Renzi ha scambiato più di qualche battuta. Le tv del circuito interno hanno immortalato i due parlottare a lungo, forse di altro, durante l’ingresso nella sala che ospita le riunioni. Perché lo scoglio, ancora una volta, rimane la cancelliera, che continua a ribadire il suo ritornello di sempre e ha insistito perché nelle conclusioni di questo vertice – chiamato a dare l’imprimatur al piano Juncker – accanto alla 'neutralità' delle risorse che gli Stati metteranno al fondo comune, ci fosse una 'aggiuntina', prevedendo la dizione «alle attuali regole» del Patto di stabilità. Tre sole parole in più, dietro le quali c’è però il cuore della battaglia. Una battaglia che Renzi intende comunque portare avanti guardando a quella parola «futuro» che «nel nostro Paese è sempre difficile pronunciare», come ha detto all’incontro dell’'Italian innovation day' a cui ha presenziato prima del Consiglio. Perché «abbiamo una grande storia alle spalle, ma dobbiamo smettere di pensare che tutto quello che si poteva fare sia già stato fatto».