Esito atteso ma significativo. Ora governo alla prova del "salto di qualità"
martedì 29 ottobre 2019

L’esercizio di realtà più serio che si può fare a poche ore dal voto umbro è partire da cosa l’Umbria è oggi: una terra bellissima, straordinaria e amata dal mondo intero che convive con una parola terribile, «declino». Declino è più di recessione, rallentamento, crisi. Declino è paura che tutto si riduca inesorabilmente a nulla. Dimenticarlo in sede di analisi del voto sarebbe omissione grave e indice di sospetta parzialità. L’Umbria ha tassi di invecchiamento della popolazione drammatici, indici di natalità ai minimi termini. Il nord della Regione, che affaccia sull’Italia più ricca, si sente povero a causa di una deindustrializzazione senza riconversione. Il sud della Regione, che un tempo si sentiva inizio del Centro-Nord del Paese, registra il crollo della tradizione siderurgica e tassi di disoccupazione e di emigrazione giovanile che la avvicinano alle aree depresse del Meridione. Non ci sono - unica Regione in Italia - i treni veloci. I collegamenti su strada sono scadenti.

I bambini non nascono, i ragazzi e le nuove famiglie scappano, il lavoro non c’è, gli anziani sono soli e bisognosi di cure. Basterebbe già questa carrellata di informazioni per comprendere l’impetuosa voglia di cambiamento emersa domenica. E "contro" chi doveva mai scagliarsi, questo cambiamento? Ovviamente contro la classe dirigente di sinistra, l’unica che ha governato la Regione dagli anni 70 del Novecento, per decenni, perpetuando un sistema di potere politico-economico senza mai avvertire la necessità di autoriformarsi. Già quattro anni fa gli elettori si mostrarono pronti a ribaltare questo radicato e oramai opprimente sistema. Nell’ultima fase, poi, una sconsolante gestione del dopo-terremoto e una imbarazzante "sanitopoli" hanno sconvolto il Pd e sia dai piccoli sia dai medi e grandi Comuni è iniziata l’avanzata inarrestabile della destra-centro salviniana. Il voto di domenica è la naturale evoluzione di un processo che era evidente a tutti. Tanto più che il ceto politico di sinistra responsabile del «declino» è sparito senza nemmeno dire una parola di giustificazione, mettendosi nelle retrovie a tramare contro chi ha provato, all’ultimo secondo, a metterci una pezza.

Non proprio il contesto ideale per testare l’alleanza tra 5stelle e dem e, forse, nemmeno la location ideale per la prima "foto di famiglia" di Conte, Zingaretti, Di Maio e Speranza (lo scatto di venerdì scorso a Narni con il candidato governatore Bianconi è stato da subito oggetto delle ironie dei social). E chi ha visitato l’Umbria nelle ultime settimane non è sorpreso nemmeno dallo scarto di voti: nel momento in cui M5s ha "sposato" l’ex nemico Pd ha lasciato sul campo il voto di protesta, prontamente raccolto dal leader della Lega e da Fratelli d’Italia, senza guadagnarne altro.

Ma il fatto che gli esiti fossero attesi non ne cancella i significati. Il risultato dell’alleanza guidata da Salvini è spettacolare e quello della coalizione Pd-M5s è deludente e quello del Movimento assolutamente disastroso, da "partitino". È una bocciatura secca che interroga il Governo a prescindere dalla politicizzazione del voto regionale. Interroga anche il premier Giuseppe Conte, che ha legato la forza del suo esecutivo-bis alla prospettiva di una maggioranza organica a livello nazionale e locale. Interroga Zingaretti, che ha inizialmente "subìto" il nuovo Governo e che ora si chiede se il suo partito - che non crolla ma non riesce a evitare il trauma della netta sconfitta in una Regione roccaforte - vada sacrificato alle ragioni di una "responsabilità nazionale". Inoltre l’alleanza organica sui territori con M5s è uno dei motivi dichiarati della scissione al centro di Renzi e non è graditissima da parte dei gruppi parlamentari, che già hanno iniziato il bombardamento sulla segreteria. Interroga profondamente Di Maio, che ha perso quando stava con la Lega e riperde ora che sta con il Pd, e che da mesi non vede vie d’uscita alla crisi strutturale, di proposta, del suo Movimento: la sua leadership, già appesa a un filo, ora è meno che fragile.

È possibile un’ennesima capriola politica del Movimento, con l’abbandono dell’alleanza alle Regionali con il Pd, fattore, questo, che renderebbe più precario il Governo. Eppure molto congiura perché la seconda strana alleanza di questa legislatura duri. Il voto umbro rafforza la linea indicata da Renzi, che chiede più coraggio e aveva in qualche modo avvertito sul fatto che una Manovra 2020 troppo prudente, di puro contenimento, sarebbe stata un regalo alle opposizioni. Italia Viva non ha vocazione attendista, ma non può minacciare una crisi e ha bisogno di tempo per organizzarsi. Appare invece attestato in una condizione - più che una posizione - apertamente attendista Berlusconi, ancora importante nel destra-centro sugli scacchieri nazionali, e che quindi non fa nulla per portare la sua sempre più indebolita Forza Italia in un campo dichiaratamente moderato e antisovranista.

Tirando le fila, il segnale è arrivato forte e chiaro e le forze della maggioranza giallo-rosse sono sfidate a un salto di qualità o alla "rinuncia". Il varo della Manovra non è in discussione, e forse ora l’iter sarà meno tortuoso, meno zeppo di posizionamenti tattici di partiti alleati sull’orlo, come s’era visto ben prima del voto umbro, della crisi di nervi. O forse no. Probante invece sarà il doppio test di fine gennaio in Calabria e, soprattutto, in Emilia Romagna. Lì Pd e M5s non partono battuti. Che corrano insieme o no. E comunque avranno meno attenuanti e nessun alibi rispetto all’Umbria: se perdessero in un modo o nell’altro entrambe le Regioni, il governo potrebbe entrare in seria difficoltà. Se si palesasse questo scenario, i due partiti di maggioranza e la stessa Italia Viva (e Forza Italia) potrebbero essere tentati dal correre tatticamente ai ripari con una legge elettorale ultraproporzionale, per frenare la destra-centro salviniana (anche se è pretesa insensata usare una legge elettorale per risolvere problemi politici). E si aprirebbe la finestra per un voto a giugno forse collegato al referendum costituzionale confermativo del taglio del numero dei parlamentari. A meno che nuove tensioni internazionali ed economiche non spingano verso una maggioranza più ampia di quella attuale e a varare un esecutivo di emergenza nazionale con una guida super partes. Si vedrà.

Se invece a gennaio i partiti di maggioranza riusciranno almeno a tenere botta in Emilia Romagna (dove è atteso anche un contributo più attivo di Renzi), allora per il Conte Secondo ci sarebbe una boccata di ossigeno. Almeno sino alla tarda primavera, quando altre quattro regioni (Campania, Puglia, Veneto e Liguria) diranno dove sta andando l’Italia della politica. Ma il compito più importante spetta a Conte e ai suoi strani alleati. Devono dimostrare al Paese di avere idee chiare e condivisa determinazione per realizzarle. Solo i fatti battono gli slogan, e con questi chiari di luna non sarà facile.

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