Tasse da Scandinavia e servizi da periferia d’Europa. Spesa al top e risultati flop. È stato questo, purtroppo, il modello Roma di questi anni. Il crimine organizzato, le ruberie e la spesa allegra non sono la stessa cosa. Ma nello scarto tra le risorse drenate ai contribuenti italiani e romani e la resa per i cittadini, nel mare magnum degli sperperi e dei mancati controlli, gli 'squali' che l’inchiesta della procura di Roma ha portato allo scoperto si sono potuti muovere e mimetizzare con tranquillità. Un mondo di sprechi, inefficienze,
corruzione e ora perfino un sistema mafioso per spolpare la spesa pubblica,
secondo i giudici.
Vediamo qualche dato. In base ai rendiconti pubblicati dal Comune di Roma sul suo sito, il volume delle spese correnti è aumentato a ritmi vertiginosi negli ultimi
anni passando dai 4,5 miliardi nel 2011, ai 5,1 nel 2012 ai 5,6 miliardi nel 2013. Mentre venivano tagliate le risorse ordinarie per i Comuni, l’assalto alla diligenza ha potuto contare su un sistema che negli anni ha assicurato alla capitale ripetuti trasferimenti di risorse straordinarie dallo Stato. E un ininterrotto aumento della tassazione locale, tra le più alte in Italia. Eppure i bilanci locali sono rimasti sempre sull’orlo del crac.
Dal 2008 in avanti Roma ha potuto sgravarsi del vecchio debito da 10 miliardi, passato a una gestione commissariale. Una sorta di
bad company
dove sono state parcheggiate le vecchie pendenze. Il regalino fatto dal governo di centrodestra alla capitale, alla cui guida era approdato Gianni Alemanno, che è costato ai contribuenti italiani oltre 500 milioni di euro l’anno dal 2008 al 2012. L’operazione doveva
servire a rimettere in carreggiata una macchina amministrativa allo sbando, ma così non è stato. Nel 2013 il nuovo sindaco Ignazio Marino ha denunciato di avere trovato un nuovo 'buco' da 867 milioni nei conti ed è tornato a battere cassa al governo, guidato prima da Enrico Letta e poi da Matteo Renzi. Con il decreto salva Roma, approvato dopo parecchie traversie nell’aprile scorso, il comune capitolino ha potuto contare così su un altro regalino da 485 milioni. In cambio il governo centrale ha chiesto una stretta che però, secondo un rapporto riservato della Ragioneria generale, almeno nella prima fase non c’è stata. Oggi il primo municipio italiano è impegnato in un piano di rientro che punta a tagliare 440 milioni alla spesa corrente in tre anni. Ma lo sbilancio supera il miliardo di euro, secondo
Erst&Young.
Oltre a pesare sul resto del Paese, Roma spreme sempre più i suoi residenti. La capitale è al primo posto per l’addizionale municipale Irpef: 164 euro a testa a fronte dei 65 medi italiani. Ed è ai vertici del prelievo anche per l’addizionale regionale,
che nel 2015 aumenterà ancora per tenere a bada l’enorme deficit sanitario. Non va meglio per le imprese, che nel Lazio fanno i conti con un’Irap tra le più salate. Dove finiscono tutti questi soldi? In teoria, dovrebbero corrispondere a un’offerta di infrastrutture e servizi di alto livello. Ovviamente non è così. Che la macchina comunale non funzioni lo testimonia la stessa Agenzia della capitale incaricata di controllare la qualità dei servizi. L’ultimo rapporto, pochi giorni fa, segnala un progressivo peggioramento negli ultimi anni. La qualità della vita a Roma è giudicata insufficiente, con 5,7 punti su dieci. Si salvano solo i musei, mentre decoro urbano e pulizia si aggiudicano un bel 4, i trasporti 4,7 così come la raccolta rifiuti.
Il servizio Opencivitas del ministero dell’Economia consente di mettere a confronto le spese reali dei Comuni nei diversi settori con i fabbisogni standard di riferimento, cioè con la spesa considerata equa. Ebbene, per centrare i costi standard Roma dovrebbe ridurre le spese del 7,6%. In particolare risultano incontrollate
quelle per la gestione delle entrate tributarie (con un
gap
del 49%), mentre la polizia locale spende il 14% di troppo, gli asili nido e i trasporti il 15%, i rifiuti il 18%, l’istruzione il 20%. Va osservato tra l’altro che la spesa considerata è quella indicata a bilancio dai Comuni ma non tiene
conto dei debiti prodotti dalle controllate, dall’Atac (trasporti) all’Ama (rifiuti), nel fornire i servizi. In sostanza, nel caso di Roma lo scarto tra spesa efficiente e spesa reale è sottostimato. L’attuale assessore al Bilancio Silvia Scozzese, in carica da qualche mese, ha scoperto che il costo per
i computer è 5 volte superiore alla media degli altri comuni. Per la cancelleria degli uffici si paga il doppio. Spese più alte anche per i telefoni, 1.100 euro a dipendente contro i 700 medi, e per l’illuminazione pubblica (il 50% in più del resto d’Italia). Margini per risparmiare ci sono. Ma
con l’esercito dei 60mila dipendenti del sistema romano restano limitati. Specie se non si mette mano all’arcipelago delle società partecipate, tutte in deficit o con forte debito (a parte Acea, l’unica quotata e con soci privati di peso). Per ora il piano di rientro della giunta Marino, in attesa di incidere sulle uscite strutturali, ha aumentato il costo di alcuni servizi, come i nidi comunali (rincaro stoppato poi dal Tar), delle tariffe di parcheggio e degli scuolabus. Secondo l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, il Lazio è la regione dove si concentra un quinto delle perdite di tutte le partecipate locali: 240 milioni su 1.200. Eclatante è il caso Atac che nel 2012, con i suoi 157 milioni di rosso (saliti a 220 l’anno dopo), ha prodotto da sola la metà del passivo di tutte le aziende italiane di trasporto locale. Perfino le 43 farmacie comunali riunite in Farmacap sono a rischio crac: un record negativo.