martedì 4 giugno 2024
Si è spento a Milano il nostro collega e amico indimenticato, già caporedattore centrale del giornale e a lungo inviato. Il ricordo del suo stile, della sua generosità e delle sue corrispondenze
Elio Maraone alla sua scrivania di Avvenire

Elio Maraone alla sua scrivania di Avvenire - Archivio Avvenire

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Prima che un bravo giornalista - e prima della sua lunga carriera ad Avvenire, di cui è stato caporedattore centrale e poi a lungo inviato - Elio Maraone era un galantuomo. La sua proverbiale riservatezza, l’affabilità dei modi, quella sprezzatura senechiana che contrassegnava il suo stile tanto da avergli guadagnato il soprannome di “duca” o “senatore” erano il tratto esteriore di un uomo raro. Giunto alla piena maturità professionale in un’epoca in cui la stampa godeva ancora di un prestigio e di risorse economiche oggi purtroppo assai diradati, Maraone ebbe la fortuna di incrociare la Grande Storia occupandosi come inviato dei fatti internazionali più rilevanti, dalle elezioni americane (che una volta seguì per mesi in un’estenuante maratona appresso al candidato repubblicano) alle tante e ricorrenti turbolenze mediorientali (non si contano le missioni in Israele, in Cisgiordania e in Libano), alla tragedia di Srebrenica e alle guerre nei Balcani, fino alla costante attenzione al formarsi dell’Unione Europea attraverso i passaggi più significativi, dal Trattato di Maastricht alla nascita dello spazio di Schengen, fino al traguardo della Moneta unica.

Il suo stile poggiava su pochi incancellabili caposaldi. Uno dei quali era la divisa che lo faceva riconoscere da lontano: giacca scura, camicia bianca e cravatta. Credo che nessuno dei colleghi, me compreso, l’abbia mai visto con una Lacoste o una t-shirt. Un’altra caratteristica era il contenuto ma dissacrante sense of humour: non gli garbavano le verità rivelate della politica e nemmeno le stanche liturgie del potere, per le quali riservava regolarmente un sorriso che si stagliava leggero sotto quei baffi alla Lee Van Cleef, unico vezzo di quel signore impeccabile.

Chiamato un’infinità di volte al compito di editorialista, Elio Maraone osservava caparbio un suo personale metodo di lavoro per il quale non ammetteva deroghe: un’ora di studio della materia, qualunque fosse, un’ora e mezzo di interruzione per il pranzo, mezz’ora di riposo in uno stato di misteriosa e quasi magica sospensione che gli consentiva di addormentarsi al banco di lavoro seduto in poltrona con le braccia conserte; poi, finalmente, si metteva a scrivere: una prosa chiara, essenziale ma piena di cose, di luce, di rimandi, di abbozzi, di eleganti allusioni, come se stesse intessendo un arazzo. Ne uscivano dei fondi, dei commenti, delle cronache di britannica asciuttezza nelle quali però c’era tutto.

Gentleman nell’animo oltre che nella forma, Maraone era un uomo generoso. Varie volte l’abbiamo visto prendersi un rimbrotto per conto di un collega maldestro, tante altre l’ho scoperto correggere la malaprosa di qualche esordiente alle prime armi senza mai fargli pesare la sua immensa bravura. Che era tale proprio perché non si notava. Della sua famiglia parlava poco. Ma ne era orgoglioso. Dei figli, soprattutto. E di quella figlia che lavorava al Corriere della Sera e lo aveva reso nonno.

Contrassegnati da una impalpabile amarezza - l’amarezza di essersi dovuto congedare da una professione che si fa molta fatica ad abbandonare – gli ultimi anni della sua vita sono stati avvolti da un silenzio e da un distacco che si faceva fatica a penetrare: «Hai sentito Maraone?», ci chiedevamo ogni tanto. Qualcuno rispondeva di sì, ma i “no” si facevano sempre più numerosi. Ma non c’era astio nel suo silenzio. Semplicemente guardava oltre, alle cose fatte, a quelle perdute, alle parole che avrebbe voluto ancora dire, al mistero che attende tutti noi oltre la soglia della vita terrena. Se n’è andato a 85 anni non ancora compiuti, fiaccato da un male che lo tormentava da lungo tempo. Inutile dire che per noi resterà sempre il “duca”. Ma questo lo sanno bene anche al di là delle nuvole.

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