Beatrice Venezi - Ansa
Direttrice o direttore: importa qualcosa? Con la sfrontatezza e il carisma dei suoi 31 anni di più giovane donna in Europa a guidare un’orchestra, Beatrice Venezi con una sola frase sul palco di Sanremo ha messo alle corde il dibattito sull’uso della lingua come strumento di discriminazione, sempre interessante ma che – a forza di aggrovigliare diktat e ossessioni – finisce per essere stucchevole. Possiamo dirlo? Ideologico. Noi qui presi a discutere se oggi declinare prevalentemente al maschile alcune professioni (sindaco, presidente, sottosegretario...) sia retaggio di una società oppressiva, poi arriva lei a mostrarci in un istante che ci stiamo attardando in questioni sempre utili – chi può negarlo? – ma ormai sorpassate, come la realtà che supera sempre i nostri tentativi di impacchettarla. Nomi e definizioni non sono mai neutri, e una parola può esaltare o cancellare.
Ma l’incertezza del futuro ha insegnato alla società – e ai giovani in primis – a badare alla sostanza assai più che alle proclamazioni di principio, fossero pure sorrette da solidi argomenti. Cosa conta, davvero? Che la locandina delle sue predilette opere pucciniane sotto il nome di Beatrice Venezi riporti la definizione di «direttrice» oppure che, una volta afferrata la bacchetta, faccia arrivare la musica al nostro cuore come nessuno, alla sua età? Non c’è dubbio che, pochi secondi dopo le prime note, non interessi per nulla la definizione che spetta a chi sta guidando l’orchestra.
Oppure vogliamo affermare che competenza, professionalità e stile contano meno della qualifica con la quale ci si presenta? Ma così rinnegheremmo proprio l’idea – in sé corretta – che porta a insistere sul primato del genere, ovvero che bisogna riconoscere qualità e perfezione a prescindere dal sesso di chi le esprime. Per paradosso, accade che a impuntarsi nel riconoscimento di una diversità da promuovere sia chi poi spesso la nega nel nome di una fluidità "gender neutral" che dovrebbe consentire a chiunque di sentirsi ed essere ciò che vuole, come se il genere fosse una insopportabile gabbia. Se invece la differenza è davvero un valore – e lo è, perché è la realtà a mostrarcela – deve portarci a non ridurla a una questione da dizionario.
Beatrice vuole farsi chiamare «direttore»? Ne ha tutto il diritto: perché è anche così che esprime una coscienza libera dal pregiudizio. E in lei vedremo tutta l’arte di cui è capace, che è ben più delle parole per dirla.
Francesco Ognibene
Beatrice Venezi - Fotogramma
Perché maestra sì e amministratrice delegata no? Perché parrucchiera sì e architetta no? Si sa, i "femminili professionali" da tempo sono oggetto di appassionate discussioni, e benvenuto il Festival di Sanremo che dà la possibilità di riaffermare che – a dispetto delle opinioni personali, tutte legittime – declinare i nomi dei mestieri non è un’opzione, ma una regola grammaticale. Se in un ruolo c’è una donna, quel ruolo assume il femminile, ed è sufficiente sfogliare un vocabolario per convincersene. La straordinaria Beatrice Venezi sul palco dell’Ariston ha chiesto di essere chiamata «direttore d’orchestra»? Ne ha la facoltà, e nessuna/o è autorizzato a offenderla o lanciarle anatemi. Ma, semplicemente, affermare che «la posizione, il mestiere, hanno un nome preciso e nel mio caso è direttore d’orchestra» non è del tutto condivisibile. Anche "re" è una posizione, un ruolo, eppure ha il suo femminile, regina. Insomma, il mestiere si declina a seconda di chi lo esercita, se un uomo o una donna. Altrimenti le donne saranno sempre e solo cameriere, sarte e lavandaie e non saranno mai ministre, governatrici e rettrici.
Perché se una cosa non ha un nome non esiste. E, al contrario, Nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenza delle cose. Se oggi le donne esercitano ruoli e professioni tradizionalmente maschili, soprattutto di grande prestigio, esiste sicuramente un nome per dirlo, anche se è la prima volta. Così non "nominare" l’architetta o la magistrata o l’assessora perché "suona male" è solo un’aggravante: vuol dire che non ci siamo ancora abituati all’idea che sì, le donne sono arrivate a svolgere mestieri che un tempo erano riservati agli uomini (per inciso: la prima direttrice d’orchestra si segnala al Politeama di Livorno, era il 1905). Nessuno ne fa una questione di vita o di morte, e bando anche alle crociate pseudo-femministe. Sappiamo tutti/e che una desinenza (corretta) non cambierà di una virgola la questione della disuguaglianza di genere. Ma il cambiamento può passare anche dalle parole. Infine, una piccola provocazione per tutti, maschi e femmine: se un uomo non può scegliere (un direttore è un direttore e basta) non è forse arrivato il tempo di mettere un punto fermo e dare retta al vocabolario anche per ciò che riguarda i mestieri al femminile? Forza, maestri. E maestre.
Antonella Mariani