Un giovane David Sassoli - Archivio Avvenire
Quando se ne va un collega, un compagno di tanta strada professionale i ricordi si accavallano, ma alcuni di David mi tornano limpidi, con quella bellezza, allegria, profonda semplicità che lo hanno sempre caratterizzato. Sono quelle giornate passate insieme a palazzo San Macuto nei primi anni ’90 a seguire le commissioni parlamentari d’inchiesta, la commissione stragi, la commissione antimafia. Gli anni di Ustica, di Gladio, di Buscetta e Falcone, dei tanti misteri che provavamo a raccontare.
Eravamo un gruppo, grandi firme come Peppe D’Avanzo e Ciccio La Licata, e poi Giovanni Bianconi, Fiorenza Sarzanini, Alessandro Farruggia, i fratelli Cipriani, Franco Giustolisi. E David. Il meglio del giornalismo d’inchiesta. Giornalismo, purtroppo, in via d’estinzione. Anche come stile. Giornalisti e amici, non fanatici dello scoop, ma pronti ad aiutarsi, a collaborare. Per provare insieme a scavare in quelle torbide verità. Come David sempre gentile, allegro, disponibile. Quanti scherzi organizzava in quelle lunghe ore nella sala stampa! Ma pronto ad aprirsi anche per confrontare con me comuni e simili “problemi” familiari. Battuta pronta, ma scrittura profonda, documentata. Inviato di punta ma pronto a sporcarsi le mani come quando, assieme ad alcuni colleghi, “affittammo” una copisteria in Centro per fotocopiare le centinaia di pagine con lettere di Moro ritrovate nel covo delle Br di via Montenevoso. “Questo a me e questo a te”, per strada davanti ai passanti stupiti. Scherzando, ma consapevoli di avere in mano la responsabilità di raccontare un terribile pezzo della storia del nostro Paese.
Questo era il giornalista David Sassoli, capace di coniugare la leggerezza della narrazione, con la profondità del rigore professionale. Che bel giornalismo! Senza prendersi mai troppo sul serio, ma capendo bene l’importanza della nostra professione. Ci capivamo bene, anche per la comune formazione scoutistica e per la provenienza, per entrambi, dal mondo del cattolicesimo democratico. Eppure fu una sorpresa per me la sua proposta di fargli da vicepresidente a Stampa romana, il sindacato romano dei giornalisti, accanto alla segretaria Silvia Garambois. Una proposta tutt’altro che formale, proprio come era David. Io, lui e Franco Siddi, allora alla guida della Fnsi, seduti a un tavolino di un bar di piazza Navona, tra battute (le sue) e progetti (sempre i suoi). Ricordo che di fronte ai miei dubbi, alle mie resistenze, David tirò fuori la carta scout, quel “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato”, del testamento del fondatore Baden Powell, che è stato sicuramente al centro della sua vita professionale e politica. Non potevo dirgli no. Era una chiamata all’impegno. Come a San Macuto. Che bella esperienza, che bel sindacato! Toni pacati ma fermi, disponibilità al dialogo ma non sui valori veri del giornalismo. Grande attenzione ai precari e agli sfruttati. Ma anche al rapporto con la politica. Battaglie, certo, ma condotte senza urlare. Proprio come il suo modo di parlare.
Sempre gentile, anche quando doveva presiedere qualche riunione non particolarmente facile. E già, David era nato presidente ma coi piedi ben saldi sulla terra, quella più difficile, quella dei diritti negati.
Mi mancheranno i suoi messaggi che pur da presidente dell’Europarlamento mi mandava personalmente sul cellulare, così come aveva sempre fatto. Le sue richieste, notizie e segnalazioni, sempre gentile, da amico rimasto semplice. Le ultime, di poche settimane fa, sono ancora lì e raccontano bene quello che era. Erano le sue preoccupazioni per le stragi in mare e per l’accoglienza dei rifugiati. Mi chiedeva aiuto, con proposte concrete, fatti e non vuote parole. Mi mancherai davvero compagno di tanta strada. Ciao David. Buon cammino.