venerdì 3 marzo 2023
Stesse condizioni di maltempo, stessa provenienza e destinazione: ma con (lieto) finale diverso. 240 persone furono salvate dalla guardia costiera. Fra loro anche una neonata
Così un barcone uguale fu soccorso in sicurezza

Guardia Costiera

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Appena 15 mesi fa. Il 27 novembre 2021. È notte, come lo scorso 25 febbraio. Un barcone viene individuato a 100 miglia da Capo Spartivento, Calabria jonica. Più del doppio delle miglia dove è stato individuato da un velivolo Frontex il barcone poi naufragato a 150 metri dalla spiaggia di Cutro.

Il mare è forza 5, più delle condizioni (forza 4) che sei giorni fa hanno fatto rientrare i due mezzi della Finanza per “le difficili condizioni meteomarine e l’impossibilità di proseguire in sicurezza”. A bordo 240 persone, tra i quali una neonata, come sul barcone naufragato a Cutro. Ma in quella notte di fine novembre di poco più di un anno fa, a uscire con prontezza dal porto di Roccella Ionica è la motovedetta CP326 della Guardia costiera, imbarcazione della classe 300, inaffondabile, la migliore per i soccorsi.

Abbiamo ritrovato questa storia rileggendo i tanti articoli che Avvenire ha dedicato in questi anni alla “rotta turca”. Approdi senza drammi (quasi sempre) e senza polemiche. Quello del 27 novembre 2021 ci colpisce per la somiglianza con la vicenda di Cutro. Ma con un finale diverso. E uno scenario politico diverso: governo Draghi, all’Interno, Luciana Lamorgese, alle Infrastrutture e mobilità sostenibili (ex Trasporti), Enrico Giovannini. Leggiamo la cronaca di allora. La prima segnalazione del peschereccio era arrivata la mattina, e dal porto di Roccella Ionica era uscita subito la motovedetta. Non ci sono dubbi, allora. Evento Sar, dunque, search and rescue, ricerca a soccorso, non di polizia in mare, law enforcement, per contrastare reati, come invece deciso per Cutro facendo partire due mezzi della Guardia di Finanza. Allora si decise che la situazione era ad alto rischio. Così oltre alla CP326 interviene un pattugliatore rumeno di Frontex. Ma il mare era sempre più mosso e il tempo in peggioramento. Vengono dirottate due grandi navi civili, la Hellas Revenger e la Giannina per proteggere l’operazione, fare da scudo a vento e onde, e così, con acque un po’ più tranquille, fare il trasbordo dei migranti. Vento e onde che invece hanno capovolto e poi distrutto il barcone a Cutro. Il pattugliatore rumeno non poteva imbarcare gli immigrati direttamente perché troppo grande e alto, e la motovedetta della Guardia costiera ha dovuto fare la spola, trasportando sulla nave 160 persone, mentre 80 restano a bordo del mezzo italiano. I primi vengono portati a Crotone, gli altri a Roccella Ionica. Tra loro anche una donna siriana che da poche ore aveva partorito una bimba. Sono loro l’immagine più bella di quel salvataggio.

La neonata che piange accanto alla giovane mamma sdraiata nella cabina della motovedetta CP 326. Piange ma in salvo, con in testa un berretto più grande di lei col disegno di un’ancora. L’ancora di salvezza. Non come il neonato chiuso nella bara bianca più piccola disposta nel Palazzetto dello sport di Crotone, con sopra solo la sigla KR46M0: Crotone, 46ma salma, maschio, zero anni. Zero come la piccola, invece salvata in quella notte del 27 novembre. L’hanno chiamata Splendore, per alcuni mesi è stata accolta con la famiglia nel comune calabrese di Camini, straordinario esempio di integrazione, e ora vive in Germania. Vive. Grazie a quel soccorso. «È stata un’operazione veramente complessa – ci aveva spiegato il contrammiraglio Antonio Ranieri, allora comandante regionale della Guardia costiera – . Cinque persone di equipaggio ne hanno salvate 240. Mangiando qualche grissino e bevendo poca acqua. Usciamo con tutti i tempi, con le umane possibilità. I ragazzi sono bravi, sanno che lì c’è qualcuno che sta peggio di loro e non si tirano indietro».

Poi altre parole giustamente orgogliose ma che oggi fanno venire i brividi. «Siamo impegnati quando serve. Quando accadono questi fatti dobbiamo fare come abbiamo sempre fatto. È la storia della Guardia costiera, della Marina, siamo italiani e queste cose le facciamo. E quando gli immigrati sono sbarcati non abbiamo potuto che gioire di questa ulteriore riuscita». E allora si era in piena pandemia che obbligava l’equipaggio a indossare i Dpi che complicavano il loro lavoro. «Sono un po’ impacciati nel manovrare le cime a bordo, nel far sbarcare le persone, ma lo fanno e non si tirano mai indietro », ci aveva detto ancora l’alto ufficiale. Spiegando poi, con professionalità, quali barche andavano a salvare. «Le barche a vela sono migliori perché più stabili. I pescherecci sono molto vecchi. Basta che salta un fasciame, cominciano a imbarcare acqua e diventa una tragedia. E con questo mare grosso può succedere. Noi li raggiungiamo via mare ma qualcuno dall’alto li deve guardare…». Questo poco più di un anno fa.

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