giovedì 10 novembre 2011
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​La scena madre si gira in mattinata. Di fronte al premier l’amico e socio di sempre, Fedele Confalonieri, il sottosegretario Gianni Letta, suo custode in ogni attimo della crisi, il delfino Angelino Alfano: «Silvio, rischiamo di rovinare tutto. Il voto non lo reggiamo, ci manderà in mille pezzi». Berlusconi è seriamente tormentato, quasi rassegnato all’incombente esecutivo Monti: «Ci devo pensare, ci voglio pensare sino all’ultimo secondo. Troppe incognite, rischiamo di perdere Umberto... Ma dopo il voto alla Camera andrò a dimettermi e lì avrò le idee chiare». Un sussulto di decisionismo. In realtà la stragrande maggioranza del Pdl, con pezzi da novanta - anche elettoralmente parlando - come Frattini, Fitto, Formigoni e Scajola lo ha messo in minoranza: «Niente corsa alle urne o se ne vanno tutti». Il premier mastica amaro, si sente tradito, per la prima volta i suoi uomini lo hanno scavalcato, anche se a loro attribuisce nobili motivazioni politiche. Dunque prende atto. Riesce solo a riservarsi altro tempo per riflettere. Si riserva il diritto all’ultima parola.All’estremo della pellicola c’è un’altra scena. Sala del governo di Montecitorio, sera inoltrata: Angelino Alfano, su mandato del Cavaliere, raduna tutte le anime del partito, compresi gli ex An, più dubbiosi sulle larghe intese. Due ore fitte di discussione animata. Prende la parola il ministro Frattini. Riporta le apprensioni del Colle. I timori dell’Ue. La linea del partito piano piano si dipana. «Dobbiamo dare un’indicazione ai nostri, altrimenti si organizzano da soli», sprona Alfano leggendo le agenzie di stampa con le parole di Antonione che annuncia un gruppo autonomo degli scontenti. Ci sono Cicchitto e Gasparri, i ministri Gelmini, Meloni, Brunetta, Prestigiacomo e Romani, i coordinatori Verdini e La Russa. C’è Maurizio Lupi, il primo ad ammettere la possibilità di un esecutivo di emergenza. I favorevoli ad una fase di transizione superano i contrari. Ma non senza ripercussioni. La riunione si conclude e dieci minuti dopo un big come il titolare delle Infrastrutture Matteoli dirama una nota: «Dopo Berlusconi c’è solo il voto. Con me ci sono trenta parlamentari». La coperta è corta: qualcuno si staccherà, in un caso o nell’altro. Gasparri e La Russa si trattengono a Montecitorio e continuano a ragionare. Loro potrebbero far pendere la bilancia in un verso o nell’altro.Concluso il vertice parte la telefonata per Palazzo Grazioli: «Silvio, siamo arrivati a questa riflessione...», gli dice Frattini. «Io capisco, c’è una situazione economica gravissima, sono preoccupato come voi. Però...». Però Bossi potrebbe rompere e farsi quindici mesi all’opposizione, distruggendo l’asse politico più solido che Berlusconi sia riuscito a costruire nell’ultimo decennio. E allora la "quadra", ancora una volta, va trovata con l’Umberto.In serata lo stato maggiore del Carroccio sale a Palazzo Grazioli. Se il Senatur apre e partecipa all’impresa si spalanca un portone. Altrimenti si ripiomba tutti nel buio, oppure - ipotesi fantapolitica che pure circola - ci si dà tatticamente appuntamento al 2013. La leva per convincere i padani è Maroni, l’anima conciliante di via Bellerio, possessore di un pacchetto societario sempre più ampio. Ma anche in questo caso si profilano riflessioni e trattative sino all’ultimo secondo utile, sino all’attimo precedente la salita di Berlusconi al Colle con le dimissioni in tasca. L’opzione che il Senatur avrebbe gradito, un esecutivo Alfano con ritorno alla maggioranza del 2008, appare impraticabile.Il summit è inizialmente un faccia a faccia premier-Lega, poi arrivano tutti i reduci del vertice Pdl alla Camera. Si ragiona anche numeri alla mano. Si contano quelli che con le larghe intese resterebbero e quelli che romperebbero. Un calcolo non facile e non meccanico. Il premier trova nuovi fondamenti ai suoi tormenti e ai suoi dubbi. E oscilla. A tratti gli tornano in mente le parole appassionate di Confalonieri, i dati drammatici di Mediaset in Borsa. Nel pomeriggio passa anche il fratello Paolo. «Il suo gruppo sta sprofondando», commenta un dirigente che ha assistito al colloquio. E Silvio oscilla ancora. Il futuro delle sue aziende - e il futuro imprenditoriale dei suoi figli - non sono certo un fattore irrilevante nei suoi ragionamenti. E se fosse stata l’ipotesi di andare subito al voto – da lui lanciata – a seminare il panico sui mercati?Nel cuore della giornata - è la trama della crisi che si dipana davanti ai suoi occhi - gli arriva dal Colle la nomina come senatore a vita di Mario Monti. Berlusconi sente Napolitano. È conciliante: «Si, è un momento in cui ci vuole responsabilità, ma di certo non si può escludere chi ha vinto le elezioni. Deve essere una soluzione a tempo e con un programma preciso». Quindi espone le resistenze della Lega che lo frenano. Poi controfirma la nomina. E a molti sembra che abbia avallato la nomina del suo successore.
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