sabato 14 novembre 2020
Nel gruppo ci sono donne: prima di stuprarle gli aguzzini telefonano ai mariti per descrivere quello che stanno per fare e chiedere un riscatto. Tra i prigioneri anche due bimbi piccoli
I due trafficanti libici di persone Amzha (a sinistra) e Shetan (a destra)

I due trafficanti libici di persone Amzha (a sinistra) e Shetan (a destra)

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Chi piange la morte di Joseph, il bambino di sei mesi morto l'altro giorno nel Mediterraneo e ora chiuso in una bara per adulti a Lampedusa, non resti indifferente alla sorte di Eyob, che ha 2 anni, o di Febu che ha solo 10 mesi, entrambi prigionieri con le loro madri nel lager di Abu issa in Libia, a Tripoli, dallo scorso mese di luglio. Li ha presi la prima divisione della polizia di Zawiyah dopo che erano stati liberati da un altro lager. Una quarantina di eritrei sono stati catturati e privati (tranne una persona) degli smartphone e le milizie con la divisa hanno cominciato a torturarli per estorcere riscatti ai parenti di 1.200 dinari. È il prezzo della dignità nelle galere libiche. Ci sono diverse donne in questo gruppo e prima di stuprarle gli aguzzini telefonano ai mariti che si trovano in Libia per descrivere quello che stanno per fare e accelerare i pagamenti.

Il comandante, tale Al Far, prima di venire nominato ad Abu Issa ha avuto gli stessi "problemi" di abusi sessuali e rapporti di compravendita di schiavi con trafficanti libici combattenti con l'esercito fedele ad Al Serraj in altri due lager. La preziosa testimonianza dei prigionieri e dei loro cari è stata raccolta da Giulia Tranchina, avvocato italiano che vive a Londra e si occupa di diritti umani e confermata dall'Unsmil, missione ONU in Libia. Dimostra una volta di più che non cambiano le prigioni libiche dove sono rinchiusi 2.700 profughi ufficiali mentre in tutto il paese sono circa 50 mila i profughi registrati dall'Unhcr, quindi subsahariani del Corno d'Aftica, sudanesi e siriani. Le violenze quotidiane sui profughi sono ormai diventate materiale per freddi report delle organizzazioni internazionali cui l'opinione pubblica si è assuefatta o per le denunce dei gruppi per i diritti umani. A Zintan, un'altra prigione dove fino a qualche settimana fa la gente moriva di tubercolosi, la situazione resta drammatica per i 340 prigionieri (308 eritrei, i primi registrati in Libia) nonostante l'ingresso di Medici Senza Frontiere. Il governo libico ha poi deciso di trasformare la prigione in una base militare. «Ma per molti 17enni e 18enni, da tre anni dietro le sbarre in condizioni igieniche e sanitarie bestiali, malnutriti e per detenuti più grandi vittime di violenze e sequestri la situazione resta drammatica e serve un intervento delle Nazioni Unite per evacuarli - spiega Tranchina - poiché uscire senza la protezione dell'Unhcr equivale alla morte». E l'Unhcr manca da tempo.

I profughi scappano, se possono, anche da Gargarish, il sobborgo di Tripoli diventato un vero e proprio ghetto subsahariano dove abitano in tuguri sovraffollati nonostante il Covid. Quasi tutti i migranti africani registrati dall'Onu. Sono stati presi di mira da alcuni agenti della famigerata polizia libica, confermano diverse testimonianze di eritrei fuggiti dalla prigione di al Khoms, rapinati, prelevati e utilizzati come schiavi domestici e poi riportati alla sera nel ghetto. Dove i leader della comunità di rifugiati eritrei a Tripoli confermano che proseguono le raccolte fondi della deegli Usa, in Canada e in Europa per aiutare i casi disperati. Proseguono anche le partenze, organizzate per eritrei, etiopi e sudanesi, prevalentemente da 2 trafficanti abissini. Uno si fai chiamare Robot e ha appena inviato con successo due barche con 93 e 43 persone a Lampedusa. L'altro è Mebhratom e ha in carico 200 persone in attesa di partire da Zawiyah. Entrambi hanno ereditato la rete di Abusalam, con il quale lavoravano, un potentissimo boss eritreo del traffico fuggito un anno fa Dubai e pagano tangenti alla Guardia Costiera Libica perché non intercetti le loro imbarcazioni. Continuano anche le torture nei capannoni della morte del lager non ufficiale di Bani Walid dove finiscono i dannati della Libia, le persone che non hanno pagato i riscatti e su cui i trafficanti infieriscono con efferate violenze di ogni tipo per estorcere riscatti alle famiglie. Adesso, grazie al coraggio di alcune vittime oggi al sicuro nei campi dell'Unhcr in Niger, due dei torturatori più violenti hanno un nome e soprattutto un volto che può essere utilizzato dal Tribunale penale internazionale. Sono Hamza e Shetan, stupratori e assassini, secondo le testimonianze delle persone scappate dal peggiore dei tanti inferni libici.


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