sabato 15 giugno 2024
Un milione di ragazzi vive in condizioni di disagio in famiglia. L'Unione delle realtà di assistenza sociale (Uneba) propone un coordinamento nazionale tra gli enti impegnati
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«Mangiavo merendine». E quando non mangiavi, Andrea? «Stavo a letto». A fare che? «Nun saccio». Andrea ha 14 anni. Vive in una famiglia povera di Napoli. O per meglio dire, ci torna la sera, perché da otto anni la sua vita è «il doposcuola», come lo chiama lui. Andrea è uno dei ragazzi affidati a un centro diurno per minori di Uneba. Pochissimi fortunati, nella massa sterminata di ragazzi e ragazze che passano le loro giornate sul letto a mangiare merendine. Quando va bene…

«Invece, al doposcuola facciamo gite, laboratori, andiamo in piscina» racconta Andrea durante il convegno su “Il futuro delle giovani generazioni: le sfide nel processo educativo e di cura”. Uneba l’ha organizzato in questi giorni a Napoli, come ha detto il presidente Franco Massi, «per creare un coordinamento tra gli enti per minori e dar voce ai bisogni di un milione di ragazzi e ragazze che vivono in famiglie disagiate». Un’emergenza anche culturale e politica, se si considera che “minore” è un termine che usiamo solo noi: «Nelle altre legislazioni si usa il termine bambino, noi siamo gli unici a definirli ancora per ciò che non sono», segnala il giurista barese Domenico Costantino.

Andrea non vive più su un letto. Vive. E sogna di fare il barbiere, di «avere un futuro migliore», come ci dice nel linguaggio semplice dei vicoli. «In questa città e in questa regione - ha spiegato don Pino Venerito (Uneba Campania), dialogando al convegno con il garante dei minori campano, Giovanni Galano - il disagio delle giovani generazioni si è fatto più acuto che altrove, come sta a dimostrare anche l’intervento che il Governo ha messo in campo dopo i fatti del Parco Verde di Caivano, nell’estate dello scorso anno. Ma il motivo di quest’attenzione è legato anche al fatto che a Napoli e provincia operano molti Centri Diurni per minori affiliati all’Uneba». Nella sola città metropolitana, questi 18 centri polifunzionali (cui se ne aggiungono 5 di altre organizzazioni) assistono 1.000 minori dell’età evolutiva (dai 6 ai 16 anni), in situazioni di marcato disagio educativo, impegnando 120 educatori e 80 operatori tra amministrativi e ausiliari. Si lavora in convenzione con il Comune.

Città metropolitana e hinterland pullulano di famiglie multiproblematiche, povere e culturalmente deprivate: radicati nei quartieri più complessi, i Centri Diurni Uneba sono allora un punto di riferimento. «Le famiglie ci affidano i loro bambini che altrimenti resterebbero soli in quanto le donne spesso vanno a far servizi di pulizia nelle case e negli appartamenti della gente “bene” del Vomero o di Posillipo e gli uomini stanno “n mienz a via”, agli angoli delle strade a rimediare qualche soldo» spiega don Venerito. Uno scenario che il Covid ha complicato, come ha evidenziato Michele Lepore (Università Federico II).

In quest’area, il tasso di abbandono scolastico e di evasione dell’obbligo è tra i più alti del Paese e, come hanno raccontato gli operatori intervenuti al convegno, a questi ragazzi non resta altro da fare che “buscare” i soldi della pizza e del giubbotto con il lavoro in nero: 100 euro a settimana per 12/14 ore di lavoro nei bar, nei negozi di frutta, di alimentari. Per sottrarli al destino ripetitivo della plebe urbana, ogni giorno, dopo la scuola, Andrea e gli altri ragazzi vengono prelevati da una navetta e portati nei Centri Diurni.

Non avviene solo qui, anche se in altre regioni l’emergenza adolescenti si presenta con un volto meno drammatico. Fulvio Di Sigismondo, del Villaggio del Ragazzo di Chiavari, ieri ha descritto così il Centro Giovani, un servizio a bassa soglia ed alta accessibilità, aperto 6 giorni su 7 e rivolto ad adolescenti e giovani del territorio: «È un presidio di incontro, dialogo, cura e rispetto delle differenze» dove «si coltivano reti per ricucire quelle sociali indebolite dal cambiamento». L’obiettivo è generare l’identità. Di quella di genere ha parlato la pedagogista Marina Balestra: il processo di costruzione dell’identità (di figlio, di maschio o di femmina, di studente…) «oggi è più articolato e meno definito in ruoli affettivi e sociali», ha detto. E in questi processi, i social media entrano come elefanti in una cristalleria. «Accelerano la frequenza e l’immediatezza delle dinamiche relazionali adolescenziali, amplificano alcune esperienze relazionali e richieste nei confronti degli altri e alterano la natura qualitativa delle interazioni - ha spiegato Balestra -, aumentando il comfort nelle interazioni ma diminuendo l’efficacia del supporto sociale e acutizzando la vittimizzazione tra pari: la caratteristica di disponibilità dei social aumenta le occasioni di episodi di cyberbullismo, che possono verificarsi in qualsiasi momento della giornata».

Insidie per i tanti Andrea che trascorrono ancora le giornate tra il letto e la strada. E ancor più per quei figli di donne vittime di femminicidio, «che hanno vissuto sempre nella violenza e per i quali - come ha segnalato Patrizia Schiarrizza, presidente del Giardino Segreto - vi è ancora una totale assenza dello Stato».

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