sabato 18 gennaio 2014
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Il 18 gennaio di vent’anni fa nasceva sulle ceneri della Dc il nuovo Partito Popolare Italiano. La cerimonia del 18 gennaio, avvenuta all’Istituto Sturzo nel settantacinquesimo dalla fondazione del Ppi sturziano, era stata preceduta da un intensissimo dibattito, che aveva coinvolto buona parte dirigenza democristiana e anche gli esponenti più significativi e più in vista dell’associazionismo cattolico: i più attivi, tra gli altri, furono Gabriele De Rosa, Alberto Monticone, Rosy Bindi, Enzo Balboni, Nicola Mancino, Giovanni Bianchi, Rocco Buttiglione, Raffaele Cananzi, padre Bartolomeo Sorge, Maria Eletta Martini, Sergio Mattarella, Leopoldo Elia, Rosa Jervolino, Guido Bodrato, Gerardo Bianco, Franco Marini e Pierluigi Castagnetti (questi tre ultimi segretari del Ppi post scissione).L’interrogativo – di fronte a una inarrestabile crisi politica, morale e di consensi della Dc e dell’intero sistema dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica – era il seguente: come traghettare la tradizione ideale e politica del cattolicesimo democratico in una nuova forma partito, più agile e meno compromessa con il sistema di potere clientelare e gli abusi del passato?Il 23 luglio del 1993 si era riunita a Roma l’assemblea costituente che decise, non senza dissensi, il passaggio dalla Dc al nuovo soggetto politico. In quella sede il ritorno al partito di programma sturziano, che rinverdisse le radici autenticamente democratiche, riformiste e d’ispirazione cristiana della politica, sembrò la strada più adatta da percorrere a molti dei vecchi democristiani, mischiati in platea con un’equivalente rappresentanza di "esterni". Non a tutti, però, perché la galassia democristiana aveva già perso per strada Mariotto Segni e Leoluca Orlando. Mentre la fondazione del Ppi, a gennaio del ’94, comportò una contemporanea scissione sulla destra (il Ccd di Casini, D’Onofrio, Mastella e Fumagalli) e una meno vistosa emorragia sulla sinistra, con i Cristiano Sociali di Ermanno Gorrieri.Il nuovo Ppi di Mino Martinazzoli ebbe però vita breve e molto travagliata: durò appena sei anni, lo stesso tempo breve del Ppi di Sturzo. Spazzato il primo dalla violenza fascista, messo ai margini il secondo dal nuovo bipolarismo all’italiana i cui corollari, largamente amplificati dai media dell’epoca, furono la conventio ad excludendum del centro popolare e la damnatio memoriae dei meriti dei cattolici in politica. Stretto tra la gioiosa (ma alla fine soccombente) «macchina da guerra» della sinistra e la martellante propaganda del sogno berlusconiano del nuovo miracolo italiano, quel centro pulito, rigoroso ed equidistante suscitò però scarso appeal in un elettorato moderato desideroso di voltare rapidamente pagina con il passato. Un elettorato che – grazie anche al nuovo sistema elettorale maggioritario – voltò praticamente le spalle a quella formazione politica austera, temperata e pensosa, così poco telegenica, aliena da ogni forma di populismo e plebiscitarismo, che voleva provare a risolvere la complessità dei problemi italiani senza scorciatoie, facendo leva sulla testa e non sulla pancia degli italiani, ancorando l’impegno politico a motivazioni ideali, all’ispirazione cristiana e a un sincero popolarismo. Tanto che, alcuni anni più tardi, un disilluso Martinazzoli dichiarò con uno dei suoi fulminanti calembour che «i popolari erano rimasti senza popolo». Spiega il professore Francesco Malgeri, storico della Dc e testimone diretto di quei travagliati giorni: «In un contesto politico rapidamente mutato, il Ppi intese sottrarsi alla logica del bipolarismo. Martinazzoli aveva rifiutato l’idea di un bipolarismo "dettato e coatto", che portava – disse – a "un linguaggio rozzo, volgare, a una competizione soltanto contro, alla incapacità di dire il perché di una posizione". Non era quella, insomma, per Martinazzoli la strada realistica per costruire in Italia le condizioni dell’alternanza». La scommessa di Martinazzoli s’infranse però sui risultati elettorali. Spiega ancora Malgeri: «Una fascia non trascurabile di elettorato democristiano aveva voltato le spalle al cattolicesimo democratico, individuando in Berlusconi una sorta di nuovo uomo della provvidenza, senza cogliere i limiti profondi sul piano etico, politico e culturale che il movimento di Forza Italia e i suoi alleati nascondevano».La resistenza del Ppi al bipolarismo trionfante durò per una breve stagione. Intanto quattro senatori popolari transfughi furono decisivi per dare la fiducia al primo governo Berlusconi. Poi avvenne l’elezione alla segreteria di Rocco Buttiglione che accettando la logica bipolare, tentò di portare il Ppi all’alleanza con Forza Italia. Ne seguì una dolorosa controversia, finita anche in tribunale, e la conseguente scissione tra Popolari e Udc. Che porterò i Popolari ad entrare a pieno titolo nella coalizione di centrosinistra, per confluire poi nella Margherita e infine del Pd.Chiediamo al professor Malgeri che cosa rimane oggi nella politica, nella cultura e nella società italiana di quell’esperienza. «In un contesto politico che sembra aver rimosso quella memoria e quella idea della politica, spesso indicate come espressione di un passato ormai inservibile – è la risposta  – il patrimonio culturale, la storia e il pensiero politico del popolarismo possono ancora fornirci gli strumenti per interpretare anche il difficile momento attuale, per affrontare i nuovi problemi istituzionali e sociali, generati dalla crisi che viviamo».Non tutto, insomma, è da archiviare. «Quell’identità politica e culturale merita – aggiunge lo storico – di essere recuperata, ma senza fretta, senza l’ansia di riconquistare un terreno perduto e tanto meno posizioni di potere. Un recupero che va realizzato nel campo degli studi, della cultura, della scuola, delle università ma anche delle parrocchie e dell’associazionismo cattolico, che sembrano aver smarrito significativi punti di riferimento. Forse, occorrerebbe anche rompere il muro di un’informazione mediatica che tende a ignorare, se non a demolire, quella storia e quel pensiero».
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