Jozef Zverina era nato in Moravia esattamente cent’anni fa, nel 1913, e dopo gli studi filosofico-teologici svolti a Roma ebbe, durante gli anni della seconda guerra mondiale, un primo impatto con il regime totalitario, con il potere e le sue conseguenze: fu internato in un campo di concentramento tedesco. Poi, negli anni Cinquanta, Zverina assaggiò l’altro grande totalitarismo: fu prima condannato a più di vent’anni di carcere e poi, graziato dopo 15 anni, durante tutto il restante tempo del regime comunista cecoslovacco Zverina fu praticamente isolato fino ad essere costretto a non allontanarsi da una casetta alla periferia di Praga in cui era stato esiliato. Ma, paradossalmente, in questo isolamento dopo l’invasione sovietica conobbe una nuova fecondità proprio nel formare clandestinamente decine e decine di persone a quella che chiameranno poi la sua «teologia dell’agape». Destino strano di alcuni uomini: in Zverina non si erano perse l’umiltà e la letizia. La sua
Lettera ai Cristiani d’Occidente del 1970 divenne un testo di riferimento per chi in quegli anni aveva particolarmente a cuore il destino della persona tanto in Occidente quanto in Oriente. La lettera di Zverina esce in Italia, primo luogo a pubblicarla in Occidente, dopo che la stessa viene fatta arrivare in modo alquanto rocambolesco da un gruppo di ragazzi che la portano fuori dalla Cecoslovacchia. Siamo nel 1970. E penso sia importante la collocazione storica di questo evento. Zverina scrive come cristiano da un Paese, la Cecoslovacchia, in cui la circostanza del totalitarismo comunista imperante ha costretto le anime più vive a porsi la domanda centrale: «E io chi sono?», «Che cosa dà realmente consistenza al mio essere?», «Dove sta la mia identità?».Zverina indirizzò la
Lettera a cristiani che, come sembra, avevano smarrito la loro identità, il fattore che dà identità all’uomo cristiano. Egli scrive dunque a uomini che non riconoscono più ciò che ha dato e dà alla loro persona una identità. Intendiamoci, fanno questo con la nobile intenzione di portare utilità alla causa di Gesù Cristo, ma – scrive acutamente Zverina – fanno questo con presunzione, e l’uomo nella presunzione facilmente si smarrisce. Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere, ci ricorda l’apostolo Paolo (1Cor 10,12). «Fratelli – scriveva padre Jozef – voi avete la presunzione di portare utilità al Regno di Dio assumendo quanto più possibile il
saeculum, la sua vita, le sue parole, i suoi slogan, il suo modo di pensare». E questi uomini smarriti, distratti, disciolti nel magma in questo modo non fanno altro che incrementare la confusione. La ricerca della propria identità diviene tragicamente e paradossalmente affidata a ciò che annacqua, o addirittura tende ad annullare una personalità in azione, un «io» che dica coscientemente «io», un essere che si pone secondo la propria identità per offrirla come ipotesi di un cammino umano ad altri esseri umani, ad altre persone disposte a percorrere questa grande avventura dell’«io», che è la vita vissuta coscientemente e liberamente. Dunque i cristiani di Occidente, che apparentemente hanno tutte le condizioni per poter sviluppare in santa pace la propria identità e il proprio essere Chiesa, finiscono per assumerne invece la posizione del mondo. Questa omologazione strisciante, per dirla con Pasolini, mi sembra oggi particolarmente acuta e attuale tanto in Occidente quanto in Oriente. Basta guardare alle innumerevoli sollecitazioni che costringono l’uomo, e permettetemi di dire ormai non solo l’uomo occidentale, a uniformarsi, a dover e poter dare espressione pubblica solo a ciò che è
politically correct.Da qui si può capire il richiamo caritatevolmente crudo di Zverina: «Ma riflettete, vi prego, che cosa significa accettare questa parola», cioè il secolo. «Forse significa che vi siete lentamente perduti in essa? Purtroppo sembra che facciate proprio così. È ormai difficile che vi ritroviamo e vi distinguiamo in questo vostro strano mondo». Continua Zverina: «Probabilmente vi riconosciamo ancora perché in questo processo andate per le lunghe, per il fatto che vi assimilate al mondo, adagio o in fretta, ma sempre in ritardo». La caratteristica dell’omologazione è quella di rimandare a un futuro indeterminato la possibilità stessa che l’individuo possa dire «io». E infatti, che cosa si oppone all’identità della persona? Che cosa è per natura propria e per costituzione contrario, anteposto alla persona, all’emergenza della sua identità? Il potere, comunque lo intendiamo, in qualunque modo venga considerato o definito.Un contemporaneo di Zverina, Václav Havel, scriveva nel suo saggio poi divenuto famoso,
Il potere dei senza potere: «Il sistema (cioè il potere) è al servizio dell’uomo solo nella misura in cui è indispensabile perché l’uomo sia al servizio del sistema; tutto “il di più”, quindi tutto ciò con cui l’uomo va oltre la sua condizione predeterminata», tutto ciò che fa la persona tale, e perciò ogni potere, qualunque forma assuma odia il cristianesimo, cerca di espellerlo dalla propria sfera d’influenza, perché il cristianesimo è affermazione dell’identità del singolo uomo dall’inizio del suo concepimento fino all’ultimo istante di una vita che può anche essere vissuta indegnamente, miseramente; «quindi tutto ciò con cui l’uomo va oltre la sua condizione predeterminata viene valutato dal sistema come un attacco a se stesso». Il potere si sente minacciato in ultima istanza solo da ciò che permette a un uomo di dire:«io». «Il potere – continua Havel – è perciò prigioniero delle proprie menzogne... Falsifica il passato. Falsifica il presente e il futuro... Finge di non avere paura». Il potere teme solo chi si pone nella verità, chi dice «io», «finge di non fingere».