Un libro anomalo, spurio, sorprendente: l’ha scritto Paolo Febbraro, uno dei poeti più interessanti della mia generazione, nonché attrezzatissimo critico letterario. Come testimonia già la tripartizione della materia nell’indice. La prima sezione,
I grandi fatti: che dà il titolo al libro, ma prendendolo in prestito a quell’opera storica a fascicoli, «che rievocava i cento avvenimenti decisivi del Ventesimo secolo», accompagnati dalla riproduzione in ogni fascicolo delle prime pagine di quattro giornali d’epoca. La seconda,
Lampi: che s’affida a una silloge di brevissimi testi, perlopiù in forma aforistica. La terza,
Le cose dietro: perfettamente speculare alla prima per quantità e disposizione, e con essa in rapporto come il recto col verso d’un foglio manoscritto. Si tratta, come recita la
Notizia finale, delle pagine d’un taccuino cominciato il 4 giugno 1994 e terminato nell’autunno 2015, laddove, però, il tempo lungo del ventennio non compromette per nulla l’unità d’un libro governato dalla misura dell’apologo, che mi verrebbe da definire post-kafkiano: se è vero che Kafka stesso finisce per diventare personaggio, insieme a Proust, del raccontino
Sotto casa, in cui i due scrittori passeggiano, a dieci metri dal narratore, discutendo animatamente. Il post-kafkiano della definizione vuole però qui avere una sua più precisa connotazione critica: molto spesso noi abbiamo l’impressione di trovarci dentro un incubo, che vive, appunto, dell’inesorabilità sentenziosa e allegoricamente allucinata dell’apologo kafkiano che, però, viene quasi sempre complicato da una disposizione, diciamo così, lucidamente metanarrativa ed epistemologica. Che cosa voglio dire più precisamente? Che l’esecuzione spesso assai elegante d’una variazione kafkiana si porta quasi sempre dietro l’alone della sua problematizzazione. Che è poi il modo molto originale di Febbraro per interrogarsi sul rapporto tra le parole e le cose e sull’attendibilità di ciò che sta raccontando. Prendete uno dei
Lampi a questo proposito più significativi: «Un tempo,
La gioconda o
Las meninas furono grumi di colore a olio su una tavolozza, e
King Lear fu una boccetta d’inchiostro». Come dire che l’arte, e in special modo la letteratura, nella vaporizzazione delle cose in parole (o in segno pittorico), nella trasformazione della materia in realtà immateriale e spirituale, implica l’istituzione d’un secondo ordine, quello dei segni, parallelo ma non necessariamente omologo al primo, quello delle cose. In tal senso, le parole misteriose eppure inequivocabili che nel primo racconto,
L’ultimo enigma, la Sfinge affida a Edipo valgono come maledizione metafisica e, insieme, dichiarazione di poetica. Le parole che la Sfinge pronuncia dopo che, insolentita dalla stoltezza di Edipo nella decifrazione delle metafore, gli ha suggerito la risposta al suo interrogativo: «La tua vita sarà un teatro, con le parole di fuori diverse da quelle di dentro. Suderai per avvicinarle. Raramente vi riuscirai, e allora ti ricorderai di me».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Paolo Febbraro
I GRANDI FATTI Pendragon. Pagine 112. Euro 12,50