Alla fine, quando ti saluta, ti spiazza con una richiesta. «Pregate per me, peccatore. Preghiamo gli uni per gli altri perché tutti abbiamo bisogno di sentire la misericordia di Dio». Franco Zeffirelli fa risuonare l’eco delle parole che Papa Francesco ama ripetere. «Ho raccontato anch’io i grandi peccatori, l’ho fatto mettendo in scena le vicende di Violetta della
Traviata o di
Rigoletto e cercando, nei miei allestimenti, di far intravedere lo sguardo misericordioso di Dio e la certezza della redenzione ». Uno degli spettacoli del regista fiorentino che hanno fatto la storia della lirica, la
Bohème di Giacomo Puccini, martedì arriva in oltre duemila cinema di 66 nazioni (in Italia sugli schermi del circuito Microcinema) trasmessa in HD dal Metropolitan di New York. Ma Zeffirelli pensa a un altro peccatore. «San Francesco, che prima della conversione ne aveva combinate parecchie» racconta il regista con in mano un libro. Si intitola
Francesco (edizioni De Luca) e raccoglie le foto tratte dal film del 1972
Fratello sole, sorella luna. «Lo dedico a Papa Bergoglio che mi piacerebbe incontrare per dirgli la mia ammirazione perché sa accogliere il peccatore e indicargli la sconfinata misericordia di Gesù. E per ringraziarlo per aver scelto di chiamarsi Francesco».
Dove nasce, maestro Zeffirelli, il suo amore per il Santo di Assisi? «Una 'malattia' che ho preso da bimbo e dalla quale non sono mai guarito. Direi di più, un amore che non mi ha mai abbandonato quello per il Poverello, uno dei grandi personaggi della storia che se lo ascolti ti insegna ad aprire la mente e il cuore a quello che può fare l’uomo. Oggi, in ogni ambito della vita, ci sono persone che vivono lo spirito francescano, magari nel nascondimento delle loro case, nel lavoro, nei rapporti con chi hanno accanto. E tra loro Papa Bergoglio. Gli vorrei portare il mio libro su Francesco, ma anche quello che sto preparando dedicato alla figura di Gesù nel quale metteremo le immagini del mio
Gesù di Nazareth ».
Intanto la sua 'Bohème' arriva sul grande schermo. Che effetto le fa? «Uno strano effetto, certo, perché è pur sempre teatro portato al cinema e non un prodotto nato per il grande schermo. Qualche timore c’è. Ma mi consola il fatto che le mie regie sono sempre state cinematografiche. Qualcuno potrebbe dire perché piene di dettagli. Io dico perché aderenti fin nei più piccoli particolari alla realtà e finalizzate a raccontare la vita dell’uomo che i compositori hanno messo in musica nei loro capolavori.
Bohème è cinematografica nella trama e nella musica: Puccini ha voluto personaggi essenziali, anche ruvidi e con storie dure, ma vere, storie che il pubblico vive: l’amore, il precariato, la gioventù che rischia di non avere speranze nel futuro».
E oggi cosa può dire uno spettacolo nato nel 1963? «Racconta il grande rispetto per la musica che si deve avere facendo il mio mestiere. Sono contento che la Scala non abbia mandato in pensione il mio allestimento, ma soprattutto che il Met abbia deciso di riprenderlo, tornando alla grande tradizione lirica dopo aver affidato capolavori della nostra musica a registi scellerati che li hanno stravolti, svuotandoli del loro vero significato».
L’annosa questione tra trazione e modernità. Ma cosa deve fare un regista per arrivare davvero al cuore degli ascoltatori? «Deve fare quello che voleva l’autore e che ha scritto nella partitura. Assisto spesso a spettacoli che mi fanno inferocire. Penso allo scempio che è stato fatto di
Traviata alla Scala lo scorso 7 dicembre: l’ho visto in televisione e mi ha preso la voglia di alzarmi e spaccare l’apparecchio. Certo, anch’io ho fatto regie imperfette, che potevano essere migliori. Ma ho sempre rispettato la musica: non ci si può permettere di manomettere i grandi capolavori del passato o travestirli da ciò che non sono».
La sua 'Bohème' non corre questo rischio. «La pensai fedele sino alla virgola alle indicazioni di Puccini. Ho voluto che i cantanti non recitassero, ma si divertissero e soffrissero raccontando le vicende di Rodolfo e Mimì. E questo è successo sempre. Questa regia l’hanno fatta tutti i più grandi. E qualcuno, penso al mio amico Luciano Pavarotti, si è fatto perdonare il fisico non proprio da studente squattrinato con una voce unica. Quando penso a tutte le volte che ho rimontato
Bohème mi tornano alla mete ricordi di tanti amici, ricordi che mi aiutano nei momenti di sconforto che a volte mi prendono quando il peso dei miei 91 anni e la paura della morte si fanno sentire».
E si rifugia solo nei ricordi? «No, soprattutto nella fede. Quella che mi ha trasmesso mia madre. Fede che stava vacillando: stavo attraversando un periodo colmo di incertezze su cosa amare e a cosa dedicare i miei dubbi quando la decisione della Chiesa di eleggere Papa Bergoglio mi ha colpito profondamente. Ho ritrovato poco a poco quella certezza e quella fiducia che sono l’essenza dello spirito francescano con cui ho vissuto tutti i giorni della mia vita».