giovedì 7 novembre 2024
Al MedFilm Festival di Roma il film “From Ground Zero - The untold stories from Gaza” composto da 22 corti realizzati da altrettanti filmmaker palestinesi, con i bambini prime vittime
Una scena del corto “Soft Skin” di Khamis Masharawi che riprende una rappresentazione animata della guerra realizzata da bambini

Una scena del corto “Soft Skin” di Khamis Masharawi che riprende una rappresentazione animata della guerra realizzata da bambini

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Le immagini della guerra a Gaza entrano nelle nostre case attraverso i telegiornali ormai da tanti mesi. Eppure il racconto di From Ground Zero – The untold stories from Gaza riesce ad essere qualcosa di completamente, e drammaticamente, nuovo. Un pugno in pieno stomaco. Perché il film, che verrà proiettato venerdì 15 novembre al Maxxi di Roma nell’ambito del MedFilm Festival 2024, ci regala una prospettiva diversa sulle difficoltà quotidiane, le speranze e le aspettative degli abitanti di Gaza. A raccontarle sono loro stessi nei 22 cortometraggi che compongono il film, fortemente voluto dal produttore e regista palestinese Rashid Masharawi in risposta agli eventi seguiti agli attacchi del 7 ottobre 2023, è film è stato selezionato per rappresentare la Palestina all’Oscar 2025 tra i lungometraggi internazionali .

Utilizzando linguaggi diversi, che vanno dal documentario all’animazione, ciascun filmmaker apre uno spiraglio nel quale guardare ciò che sta accadendo in quella terra martoriata con gli occhi di chi, per dirla con le parole di uno dei protagonisti, è felice solo perché è ancora vivo. Già, i protagonisti. Prima di tutti, i bambini. Come Nour, ad esempio. Nel corto No Signal di Mohammad Al Sharif la bambina è seduta su un cumulo di macerie mentre lo zio cerca sotto quello che rimane della loro casa, il fratello, suo padre. Lei ha provato a chiamarlo con il cellulare e il papà le ha risposto prima che il telefono, ormai scarico, si spegnesse. Quindi è vivo e per questo Nour piange quando lo zio le dice di andare via perché è buio e torneranno domani: perché lui ha bisogno di aiuto adesso ma nessuno può darglielo.

I bambini di Soft Skin (di Khamis Masharawi), invece, in una scuola improvvisata dentro una tenda con matite, cartoncini colorati e colla realizzano una sorta di cartone animato sulla guerra nel tentativo di esorcizzare la paura. A loro le mamme hanno scritto il nome sul braccio: «Se moriamo, saremo identificati grazie a questo » dicono, ma poi provano a cancellarlo «perché da quando mamma me lo ha scritto, ho gli incubi». E tra loro c’è chi ha un fratellino che ha un anno e ancora non parla: «Sa dire solo “papà” ma sa fare bene il suono della sirena delle ambulanze » che sente praticamente da quando è nato. A School Day (di Ahmed Al Danaf ) racconta la giornata “scolastica” di Yahya che tutte le mattine mette i libri nello zaino e lascia la tendopoli in cui vive. Dopo un lungo cammino si siede su un grande sasso e tira fuori i libri. L’immagine che si allarga ci mostra che il ragazzino non è a scuola ma in un cimitero, sulla tomba del suo maestro Kamal.

Anche Alì è un maestro, anzi un professore. Ma ora, come ci racconta The Teacher (di Tamer Nijim), trascorre le sue giornate nel tentativo di trovare un po’ d’acqua, qualcosa da mangiare e una presa di corrente per ricaricare il cellulare. Ma non sempre va come sperato e ci sono giorni in cui l’acqua è finita, la fila per il pane è troppo lunga e non c’è un punto di ricarica disponibile. Chi è fortunato e l’acqua la trova, deve adoperarsi per non sprecarne neanche una goccia: è il tema di Recycling ( di Rabab Khamis). Quella tanica d’acqua deve durare chissà per quanto e così una donna, dopo averne bevuta un po’ e data da bere alla figlia, ne versa una parte in un pentolone: prima ci lava i bicchieri, poi fa una sorta di bagno alla figlia, dopo ancora la usa per lavare i vestiti della bambina. Recuperata quella che è caduta in terra, la utilizza per innaffiare le piante rimaste e, infine, per pulire il water.

La verità è che a Gaza manca tutto. E c’è persino chi va all’obitorio per cercare di rimediare un sacco di plastica di quelli che servono per portare via i cadaveri per usarlo come sacco a pelo nella tendopoli ( Hell’s Heaven di Karim Satoum). Reema Mahmoud racconta di questa quotidianità al limite dell’impossibile in Selfies, scrivendo una lettera a un amico immaginario, affidandola a una bottiglia nel mare e sperando che «la legga quando io sono ancora viva. Ti auguro una vita più felice della mia: intorno a me ci sono rovine, distruzione e morte. Sono le sei di mattina e non ho ancora chiuso occhio» dice, tra «i rumori delle ambulanze e i suoni dei miei stessi pensieri. Dormire in tenda è sfinente. Ogni mattina aspetto in fila davanti ai bagni e quando torno in tenda mi trucco per nascondere i segni della stanchezza. Mi vesto con l’unico vestito che ho portato con me. Mi manca la mia femminilità».

E mentre al mercato «il pane costa più che a Londra o a Parigi » e «chi non muore per le bombe muore di malattia», lei non solo ha perso «17 persone della mia famiglia» ma anche la speranza: «Guardiamo il cellulare sperando di sentire la notizia del “cessate il fuoco” e, invece, la notizia di oggi è il bombardamento della casa di mia sorella e la morte di tutta la sua famiglia tranne la figlia che è rimasta due giorni sotto le macerie». Le macerie sono la scenografia naturale di tutto il film: Abed ci cammina sopra ( 24 Hours di Alaa Damo) e ricorda di essere stato vittima di tre attacchi in un giorno. La prima volta è stato colpito all’occhio, la seconda è rimasto sepolto sotto le rovine della sua casa ed è stato ritrovato grazie al cellulare che ancora funzionava e la terza lo ha visto salvarsi dall’esplosione che ha distrutto la casa dello zio in cui aveva trovato rifugio: «Sotto le macerie c’erano mia madre, mio padre, mio zio, mia zia, i nipoti. Tutta la mia vita è stata demolita».

Sulle macerie ( Jad and Nathalie di Aws Al-Banna) cammina anche il giovane fidanzato che ha perso la sua Nour, «l’unica donna che abbia mai amato. Avevamo già deciso i nomi dei nostri figli, Jad il maschio e Nathalie la femmina. E ora lei è sotto le macerie e io non riesco nemmeno a piangere». In questa immane tragedia c’è, incredibilmente, anche il cinema. Quello di chi non può più farlo: « Ho sempre sognato di fare il regista – dice Ahmed Hassouna nel suo Sorry Cinema -. Dopo quattro anni e mezzo sono riuscito a fare il film, ho partecipato a un festival e vinto un premio ma nessuno dei miei attori ha potuto andare a ritirarlo perché siamo rimasti imprigionati a Gaza».

Ironia della sorte, il suo film si intitolava “Istrupya” che vuol dire “perdita insensata”: «Ora la corsa non è più ai premi ma a vedere se la famiglia è salva sotto le bombe. La priorità è sopravvivere e trovare qualcosa da mangiare» dice il regista mentre le immagini mostrano uomini, donne e bambini correre disperatamente per cercare di prendere uno dei pacchi alimentari lanciati dagli aerei. «Cinema perdonami, metterò da parte la mia macchina da presa e correrò insieme agli altri » dice il regista, facendo a pezzi il suo Ciak in legno. Etimad Washah, invece, il cinema vuole continuare a farlo. Aveva iniziato a realizzare il suo Taxi Wanissa ma la morte di suo fratello e dei suoi nipoti stava per convincerla a desistere. Finché Kamel, il protagonista del suo film, è stato ucciso e Wanissa, l’asino che trainava il suo carretto, è tornato a casa da solo: « Ho capito che dovevo finire questo film e che poteva finire solo con la mia testimonianza » dice, guardando dritta nella macchina da presa.

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