Pochi tra gli intellettuali russi costretti a lasciare il loro Paese nel lungo periodo della dittatura comunista a causa della loro libertà mentale che li rendeva intollerabili e invisi al potere totalitario, hanno trovato in Italia, a differenza che in Francia o in America, qualcosa di più di un’ospitalità temporanea, sia pure generosa, senza però la possibilità di inserirsi stabilmente, secondo le loro capacità, nella nostra vita culturale. E, in generale, non molti di questi intellettuali, costretti all’esilio in Occidente, hanno saputo evitare di chiudersi in un isolamento spirituale rispetto alla cultura ospitante e hanno attecchito invece nel nuovo terreno d’adozione, senza perdere le peculiarità della loro tradizione e formazione, ma insieme ampliando il loro orizzonte con una partecipazione organica alla cultura internazionale. Un caso d’eccezione è stato in questo senso, quello di Victor Zaslavsky che, costretto a emigrare dall’Urss nel 1975, dopo un’attività accademica come docente di sociologia in atenei canadesi e statunitensi si accasò in Italia, insegnando alla Luiss di Roma e svolgendo un prezioso lavoro culturale. Sociologo e storico aperto a interessi politici e culturali, non esclusi quelli letterari, Zaslavsky, come pochi altri col suo stesso destino, ha dato un contributo alla comprensione della realtà sovietica tanto più valevole in quanto scevro dall’emozionalità che legittimamente può animare un fuoriuscito e compenetrato invece da una lucidità di analisi che ha fatto eccellere la sua opera tra gli studi sul comunismo. Mancanza di emozionalità non significa carenza di partecipazione umana, anzi questa in lui si manifestava, tra l’altro, nel contatto diretto con gli amici, in una ironia gentile che gli garantiva una proficua distanza non solo dalla materia trattata, ma dalla stessa nuova realtà in cui in Italia era venuto a trovarsi e dove in certi ambienti intellettuali e accademici echeggiavano note affini a quelle a lui familiari nel giovanile periodo sovietico e felicemente assenti invece nel mondo d’oltreoceano dove aveva a lungo lavorato. Ricordo una volta, quando lo invitai a partecipare a un convegno italo-russo a Venezia: Victor mi domandò con un sorriso divertito e complice, poiché sapeva che ne potevo comprendere il senso, se al convegno era possibile usare senza scandalo il concetto e il termine di «totalitarismo» per descrivere e analizzare il fenomeno comunista, dato che nella sinistra usare tale appellativo era «politicamente scorretto», se applicato al comunismo visto nella sua affinità, e anche diversità, rispetto all’altro totalitarismo, quello nazionalsocialista. Ridemmo entrambi e, naturalmente, lo usammo debitamente, pubblicando poi in un volume i testi delle relazioni. Poiché è impossibile ripercorrere qui tutto l’arco dell’attività scientifica di Zaslavsky, come si farà invece al convegno di Roma, mi limiterò a ricordare tre suoi libri recenti (tutti pubblicati dal Mulino), segnalabili al lettore non soltanto come «campioni» delle qualità di questo studioso, ma come testi importanti per la comprensione della storia dello scorso secolo e di quello che si sta facendo all’inizio del presente. Il primo libro è
Pulizia di classe. Il sottotitolo precisa il tema:
Il massacro di Katyn. Nella sequela degli eccidi che costellano il XX secolo, quello di Katyn non è il più mostruoso per quantità di vittime (circa ventiduemila ufficiali polacchi fucilati come «nemici di classe» dai sovietici nel 1940 nei pressi della località di Katyn e poi seppelliti in fosse comuni). Ma questo massacro si distingue dagli altri commessi da nazisti e comunisti, perché per vari decenni, praticamente mezzo secolo, la sua responsabilità venne attribuite ai tedeschi e di questa opera di madornale disinformazione furono complici anche gli occidentali, allora alleati di Stalin. Il macabro paradosso del processo di Norimberga fu che tra i giudici dei criminali hitleriani c’erano i funzionari sovietici, colpevoli di analoghi stermini di massa, tra cui appunto quello di Katyn. Il secondo libro, fondamentale per la conoscenza anche della nostra storia nazionale, è
Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, firmato da Victor Zaslavsky insieme con Elena Aga-Rossi, studiosa di valore (e sua consorte). Chi mai avesse ancora dubbi sull’allineamento del Partito comunista italiano, e quindi in prima persona di Palmiro Togliatti, alla politica estera dell’Unione Sovietica (oltre che, naturalmente, sulla politica interna staliniana e post-staliniana) troverà in questo libro materiali e analisi per convincersi della famigerata «doppiezza» comunista, della duplice identità del Pci, nazionale e «kominternista», cioè sovietica. Nel libro si possono leggere documenti illuminanti e impressionanti come il verbale di un surreale incontro e colloquio al Cremlino il 14 dicembre 1947, tra Iosif Stalin e Pietro Secchia. Il terzo libro, recentissimo, è stato scritto da Zaslavsky assieme a Lev Gudkov, uno dei più seri esperti russi di politica, direttore del Centro studi sull’opinione pubblica «Yuri Levada» di Mosca:
La Russia da Gorbaciov a Putin. È una chiara sintesi sull’argomento. Per coglierne lo spirito basterà il titolo della relazione che Gudkov leggerà al convegno romano dedicato all’amico Zaslavsky: «Giocare a fare Stalin: la mancanza di legittimità del regime di Putin». Tra l’odierna Federazione russa e la passata Unione Sovietica la continuità sotterranea non è minore della discontinuità evidente.