Psicopatologia della vita internettiana. Anche i disturbi, nel loro piccolo, si aggiornano. L’allerta "salute psichica" nell’età di Internet è ai massimi livelli di guardia e gli editori del DSM-V, ultimo aggiornamento del
Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, hanno già ordinato ai tipografi nuove risme di carta per poter incorporare tutta la nuova pato-fenomenologia digitale. Per primo venne lo IAD (
Internet Addiction Disorder), sindrome di confusione o nebulosità nell’ordine mentale dovuta ad un’esposizione eccessiva al computer, quella insomma che (secondo l’approccio meno tecnico di Paul Virilio) ti riduce «la coscienza a un ciarpame» e la memoria a «una discarica di sacchi di immagini, frammenti, spezzoni di frasi di ogni provenienza e privi di logica» (
La bomba informatica). Il simbolo di tale assuefazione potrebbe essere il ragazzino che cammina, parla con i genitori, ascolta il maestro e affronta tutto il resto con il capo reclino, per non spostare lo sguardo dal suo game boy e continuare a premere con le piccole dita sui pulsanti. Ecco la vera finalità evolutiva dei pollici opponibili! Linus "versione 2000" ha barattato la sua inseparabile coperta con un’ipnotizzante console portatile. Lo psicologo dell’infanzia Donald Winnicott riconosceva nella coperta di Linus l’emblema dell’oggetto transizionale nel passaggio dall’infanzia all’età adulta; il
game boy potrebbe segnare la transizione dallo IAD allo IADD, dove la doppia lettera "D" finale trasforma l’acronimo in
Internet Attention Deficit Disorder, difficoltà cronica a conservare la concentrazione per più di qualche minuto a causa dell’ambientamento in quello che Cory Doctorow chiama «ecosistema delle tecnologie dell’interruzione» (
Writing in the Age of Distraction). La lettura ipertestuale doveva servire a portare nell’alveare della mente il polline di tutti i fiori del prato della cultura e invece, attratti dal colore del fiore un po’ più oltre, le api finiscono per perdere la via di casa. Sì, perché ogni clic su un link è un soldino a Google e un filo sinaptico che si spezza. «Google è nel business della distrazione», dichiara Nicholas Carr nel suo
Internet ci rende stupidi? Nei tredici secondi medi in cui un utente sosta sulla stessa pagina di Internet poi è stata rilevata una nuova, sospetta, strategia di lettura. Esperimenti di
eye tracking, con telecamere che registrano il movimento delle pupille dei lettori, hanno scoperto la tendenziosa "lettura ad F": si seguono interamente le prime righe, poi si scorre velocemente giù, ci si sofferma su qualche brano centrale e si scende fino al termine della pagina.
Come leggono gli utenti sul Web? si è chiesto nell’articolo omonimo Jakob Nielsen e la risposta è inequivocabile: essi fanno qualcosa che richiama vagamente la lettura, ma, in pratica, «non leggono». V’è anche un risvolto neurologico in tutto questo e qui il tono si fa ancora più inquietante. Appurato che i nostri cervelli vengono riconfigurati dalla frequentazione di Internet, negli ultimi mesi sono stati pubblicati gli studi di Uri Nitzan dell’Università di Tel Aviv, che ha rilevato una serie di casi di psicosi legati alla comunicazione mediata dal computer, con Facebook indiziato numero uno.
A esso fa eco il protocollo di un team dell’Università di Bonn che ha riscontrato una variazione nel gene CHRNA4 (coinvolto nella generazione della dopamina e al centro di stati di ansia e dipendenza dalla nicotina) in utenti problematici di Internet, soprattutto di sesso femminile. Con un rigurgito di lamarkismo internettiano, si paventano modificazioni irreversibili a livello genetico e neurale. A puntellare definitivamente il teorema accusatorio ha pensato poi l’attenta analisi sociologica. Un intero bestiario è stato scomodato per l’analogia graffiante. C’è chi, dopo le ricerche del neurologo Jaak Panksepp, paragona i navigatori estremi di Internet a quei topini che, scoperta la levetta che provoca lievi scariche elettriche nei centri cerebrali del piacere, si consumano nel cliccare senza requie. Al loro pari, gli internauti si trasformano in «fagottini pieni di gioia» artificiale, effimera, insensata. Altri preferiscono l’immagine dei polli d’allevamento: come questi, gli informivori (i divoratori di informazioni) si lascerebbero ingozzare con l’imbuto da Internet di dati e notizie, rinunciando volontariamente al salubre razzolare libero all’aperto. Kent Berridge solleva l’umiliante paragone con il cane di Pavlov: ogni segnalazione acustica o vibratoria di mail, sms, messaggi vari in arrivo lavorerebbe, nel nostro sistema di gratificazione, come il campanello del leggendario laboratorio di Medicina sperimentale di San Pietroburgo che provocava, condizionatamente, la secrezione delle ghiandole salivari nell’animale. E a non meglio identificati «animali dagli occhi duri e secchi» la scrittrice Remedios Zafra in Sempre connessi (Giunti, 2012) assimila i "seguaci" (follower) di Twitter e di ogni network, «esseri senza lacrime», deprivati, per non sottrarre tempo allo schermo, anche di quel batter di ciglia che rappresenta la distanza dalla notizia per poterla elaborare e acquisire. Questo conduce solo, come concorda Richard Foreman, permettendosi una variazione dalla zoologia al culinario, a trasformare l’umanità in «pancake people» (persone frittelle), piatte, sottili, prive di sostanza.
Se tutto questo si confermerà vero, o anche solo la metà, non ci dovremo meravigliare se, per premura dello Stato verso i cittadini o per auto-tutela delle aziende, un’etichetta in bella evidenza "Nuoce gravemente alla salute (psichica)" risalterà sulle confezioni dei computer, come su quelle delle sigarette. Forse, però, anche un certo eccesso di apprensione è frutto della psicopatologia della nostra vita quotidiana ai tempi di Internet. O forse è solo un retaggio del nostro arcaico istinto di sopravvivenza che, nella miriade di percezioni che ci tempestano, ci fa notare con più acutezza le minacce e i pericoli, anziché il buono. Freud, come epigrafe al suo celebre saggio, aveva scelto un verso del Faust: «L’aria or così di sortilegi pullula/ Che nessun più sa come li eviti». Sicuramente Goethe non parlava di Internet. E neppure Freud. Un omaggio al detto: «cambiano le parole, ma la musica resta la stessa». E uno, ancora più ossequioso alla massima: in medio stat virtus.