Il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (Lucerna, 1905-Basilea, 1988)
Il vero, il buono e il bello. Anzi, il bello, il buono e il vero. Le categorie filosofiche che hanno dominato la storia del pensiero durante l’Antichità e il Medioevo vanno capovolte: protagonista dell’operazione Hans Urs von Balthasar, una delle più grandi menti del secolo scorso, tanto che padre Henri de Lubac lo defini «l’uomo più colto del nostro tempo». Alcuni lo chiamavano «il teologo della bellezza» perché nessun altro come lui nel corso del ’900 ha richiamato non solo la teologia, ma anche la filosofia, l’arte, la cultura tutta a riscoprire il senso della bellezza.
Nato a Lucerna nel 1905, nel 1929 entrò nella Compagnia di Gesù e da allora ha elaborato una vera e propria Summa teologica, attraverso svariate decine di opere la cui più famosa è stata Gloria, un progetto di 8 volumi – in Italia edito da Jaca Book, come la maggior parte dei suoi libri – fondati sull’estetica teologica. Si tratta del primo pannello di un trittico: si parte dall’Estetica per passare alla Teodrammatica, che tratta del bene e della libertà, e alla Teologica, incentrata sul Vero.
Se per Platone, Aristotele e Tommaso prima viene l’Essere con le sue caratteristiche, l’Uno, il Vero e il Buono, con il Bello come punto d’arrivo, von Balthasar fa un’operazione di rovesciamento. Per lui l’estetica teologica non solo promuove la forza immaginativa, ma procede direttamente dalla rivelazione stessa. È la rivelazione che diffonde la bellezza. E il Bello è splendore, irradiazione, armonia. Così Dio è bello perché è il Bello, non è bello perché è Dio. In questa maniera Balthasar si scaglia contro l’impoverimento estetico della teologia, il razionalismo e l’astrattezza. Per il teologo svizzero si è persa la componente contemplativa che ha fatto grande il pensiero occidentale e ispirato la poesia e la musica. Questo allontanamento dalla dimensione della bellezza ha penalizzato fortemente tutta la teologia, sia quella protestante che si è focalizzata sulla pura interiorità della fede sia quella cattolica che ha privilegiato l’aspetto storico. Anche la questione ecologica, impostasi negli ultimi decenni con prepotenza, è da vedersi collegata a questa perdita del senso della bellezza e della contemplazione. Per von Balthasar il nostro occhio è ridotto solo alla funzione quantitativa, allo sbriciolamento operato dalla divisione: siamo diventati analisti del mondo e anche dell’anima e non siamo più in grado di cogliere la totalità.
Morto il 26 giugno 1988, pochi giorni dopo la nomina cardinalizia da parte di Giovanni Paolo II, accettata non senza resistenze, di von Balthasar si è parlato spesso negli ultimi anni per il suo libretto Sperare per tutti, in cui giunge a ipotizzare che l’Inferno possa essere vuoto. Ora Jaca Book rimanda in libreria la sua Teodrammatica, un’opera in cinque volumi pubblicata fra il 1973 e il 1983, in cui rilegge tutta la tradizione cristiana attraverso il prisma del dramma.
Anche qui, come in Gloria e in tanti suoi libri, il pensatore di Lucerna è dai poeti che attinge le sue verità più che dai teologi e dai filosofi. Prima di scrivere la seconda parte della sua trilogia von Balthasar ha passato al setaccio tutto il teatro europeo e americano e nel primo volume ne tratta in oltre 600 pagine, citando un migliaio di autori, da Calderon a Shakespeare, da Brecht a Camus fino a Durrenmatt e Miller. «È una fondamentale esigenza cristiana – scrive nell’introduzione al primo volume – che l’esistenza si rappresenti drammaticamente. Da qui molte sono le cose che si escludono. Una fede morta che si è staccata dall’amore e dalla speranza, e che è diventata un sistema razionale di verità di fede e non produce più verificazioni nella vita». E aggiunge poco dopo: «Quel “libretto” del dramma della salvezza di Dio che noi chiamiamo Sacra Scrittura non ha nessun valore se non è, nello Spirito Santo, la perenne mediazione tra il dramma divino e umano».
Più avanti egli contraddice il giudizio del critico letterario George Steiner, per il quale «il cristianesimo è una Weltanschauung antitragica, dato che comanda all’uomo la certezza della sicurezza e della pace futura in Dio». Tutt’altro, il dramma è intrinseco alla vicenda cristiana. Sono semmai il positivismo e il marxismo ad aver liquidato il teatro in base al loro ottimismo radicale sull’uomo.
L’immenso peso del dolore umano è una questione che non può essere ridimensionata e il cristianesimo non la evita affatto. Quando ricostruisce la storia del rapporto fra il teatro e il cristianesimo, Balthasar riconosce che nei primi tempi osteggiò come noto le rappresentazioni, da Tertulliano a Cipriano, arrivando a porsi un interrogativo cruciale: «Se il cristianesimo ha iniziato così prontamente e intensamente l’assimilazione della filosofia antica in tutte le sue sfumature, perché non si è intrapresa un’analoga assimilazione anche per il teatro antico?». In realtà nel momento dell’affermazione della nuova fede nell’impero romano il teatro era già in crisi, tanto che Seneca e Cicerone si lamentarono con Augusto di quegli spettacoli ridotti a puro divertimento popolare rozzo e lascivo. Ma ci vollero secoli perché il teatro facesse pace con la Chiesa e fra Medioevo e Rinascimento esplosero le sacre rappresentazioni che al teatro antico si ispiravano.
Si arriva alla nascita del teatro moderno, ove gli elementi della teologia cristiana sono evidenti, a partire da Lope de Vega e Calderon de la Barca. Shakespeare compreso, cui è dedicato un capitoletto esemplare: egli fu «il drammaturgo del perdono». Von Balthasar prende in considerazione anche i verdetti negativi sulla morte del teatro di Karl Kraus, che trasferisce Gli ultimi giorni dell’umanità dal teatro all’operetta, e di Friedrich Durrenmatt che con queste parole ha decretato la fine della tragedia: «A noi conviene ormai solo la commedia. Il nostro mondo è arrivato per la stessa via al grottesco e alla bomba atomica». Così come non è indifferente al giudizio di Adorno sulla possibilità di fare poesia dopo Auschwitz. Ma la sua analisi è fondamentalmente positiva anche quando esamina la produzione teatrale del ’900, spaziando da Sartre a Camus, da Böll a Brecht fino ai grandi autori cristiani come Claudel e Bernanos, Eliot e Greene. «Non si obietti per favore – conclude il grande teologo – che con il dramma di Cristo tutto sia in fondo già detto, esibito ed esaurito. Non è giusto dire che il cristianesimo ha eliminato il tragico mediante l’annuncio della grazia. Il rapporto del tragico verso la verità è il nervo del dramma cristiano».