giovedì 27 giugno 2013
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Presentiamo in questa pagina una parte di «Se tornasse san Francesco», il breve saggio di Carlo Bo appena riproposto da Castelvecchi (pagine 64, euro 7,50). Si tratta dell’intervento che nell’aprile del 1982 inaugurò la serie di «Il Nuovo Leopardi», trimestrale diretto da Gastone Mosci e apparso con regolarità fino al 1997. La rivista fu espressione della vivacità culturale di Urbino, la città in cui Bo (1911-2001) rivestì a lungo la carica di rettore dell’Università oggi a lui intitolata. Fra i massimi critici letterari del ’900, lo studioso fu autore di contributi capitali tra cui «Letteratura come vita» (1938), «Scandalo della speranza» (1957) e «Sulle tracce del Dio nascosto» (1984).Tornerà san Francesco? Per ora siamo costretti a fantasticare sulla possibilità del suo ritorno, rovesciando la domanda sotto forma di ipotesi: se tornasse. Se tornasse, se un giorno battesse alla nostra porta di carta, che lascia trapelare un’infinità di altre notizie, di altri messaggi, come ci giocherebbe, quale sarebbe il suo stupore? Un poeta francese dimenticato ha scritto una poesia su uno di questi ritorni, sul maggiore che la nostra mente possa ipotizzare, il Cristo come fantasma, come revenant. Un viaggio scontato in cui il Cristo mascherato ritrova il mondo eternamente immerso nel lago della sua disperata solitudine, una sorta di conferma dei nostri vizi, della nostra perpetua corruzione. Sarebbe lo stesso per san Francesco e sulle macerie che da secoli cerchiamo di rimettere in piedi troverebbe qualche pezzo del libro delle sue regole, non proprio cenere così come non è cenere il Vangelo. Tutti e due però questi frammenti a testimoniare l’abbandono da parte nostra, la rinuncia all’impresa, il guanto gettato della sfida che si rivela insuperabile.Così il Cristianesimo è stato e resta quasi sempre la più bella delle tentazioni, la più pura idea dell’uomo, ciò che vorremmo attuare e non ci riesce perché ci manca l’obbedienza, l’amore per gli altri che annulla l’amore per noi stessi, il perdono. Ne facciamo un canto, una poesia, un affresco: tutti i simboli della più alta delle nostre ambizioni, di quelle ambizioni che in partenza spegniamo nel colore indeciso, perso delle utopie. Nei migliori, nei santi, nella sterminata famiglia di chi soffre e non ha voce si è rifugiata la dura lezione francescana, in tutti gli altri a cui apparteniamo spesso tende a sfumarsi in leggenda. Nel nostro caso, nella leggenda di san Francesco.Quando Francesco batte alle nostre porte e questo avviene molto più spesso di quanto non crediamo, noi ci limitiamo al metro dello spiraglio, facciamo entrare nelle nostre case la sua leggenda e lasciamo fuori le sue verità che sono la pazienza, il perdono, l’amore. In fondo è soltanto l’amore che le raccoglie e le riassume tutte. Perché lasciamo fuori di casa la sua verità «d’amore»? Ma perché ne siamo incapaci, il regime di usura e di sfruttamento, la regola del do ut des, la filosofia di vita che ne consegue hanno come obiettivo primo lo spirito d’amore, quel bonum che scriviamo sulle nostre insegne e in realtà non rispettiamo. Il bonum è soltanto nostro e facciamo di tutto per ottenerlo, migliorarlo sul piano pratico mentre non è mai – come vorrebbe san Francesco – quello degli altri. Da questo punto di vista vince puntualmente il nostro calcolo, il nostro utile, il senso delle convenienze. San Francesco ha perso, così come sembrano fatalmente decaduti i suoi sogni di una comunità umana svincolata dalle dure leggi dell’economia, i tentativi che sono stati fatti in altri continenti e che si ispiravano alle sue più generose ambizioni appartengono alla Storia scritta ed è improbabile che possano tornare in quella da scrivere. I tempi per questo motivo non sono mai stati pronti, lo sono sempre meno, anche se nelle nostre programmazioni, nelle nostre calcolatrici, nei computer mettiamo tutti i dati necessari per risolvere questo drammatico problema della disuguaglianza. La società industriale ha ingigantito le ragioni del contrasto sociale che al tempo di san Francesco avevano un carattere familiare, ma non dimentichiamo che in prospettiva aveva intravisto l’importanza del tema e secondo la sua natura lo aveva risolto alle radici. Nell’ambito della «povertà» san Francesco aveva saputo distinguere il veleno che uccide il corpo di un Paese, intanto se ne era assunto la sua parte di responsabilità, per sé e per i suoi frati e dal momento in cui si è convinto di questa verità ha messo in moto la macchina della riduzione al minimo, all’essenziale e perché era santo del «sotto il minimo», dell’appena vitale, insomma della sopravvivenza. Questo significa quel suo voler chiedere per gli altri, farsi povero per le strade, alla porta della chiesa, questuando per le case e sottoponendosi all’offesa e all’insulto. Niente dà più noia della povertà, nessuno disturba più del povero. A distanza di molti secoli questa filosofia è stata ripresa e illustrata dal Manzoni in uno dei grandi libri della letteratura, che è ancora una storia familiare ma dove lo spirito di san Francesco è vivo nella violenza del mondo, nella coscienza della colpa, nel solenne invito al perdono che fra’ Cristoforo rivolge a Renzo. È la grande linea che riscatta una letteratura come la nostra per tanta parte incline alla dilettazione retorica, la linea che parte dal Cantico, passa per Dante e approda ai Promessi sposi. Ma anche di questo abbiamo fatto una leggenda, qualcosa da ammirare dal di fuori senza compromettere nulla di quanto sia veramente nostro, del nostro interiore. Tutto si risolve nei momenti più sinceri in rimorso, tutto si placa nella coscienza della nostra inadeguatezza, in una pura ispirazione verso il bene, il perdono, l’amore. Non di più; e a volte ci sembra già molto, avvoltolati come siamo nella polvere del peccato, dell’offesa a Dio che si fa sempre più sanguinosa, per cui sembra non esserci alcun limite al bisogno di vendetta e l’uomo ha imparato a bere il sangue delle vittime e a sedere al banchetto che quotidianamente viene imbandito per le maschere, le controfigure, i violentatori dell’uomo.Questa è la risposta più infame che diamo a san Francesco, che bussa alla nostra porta, a suo modo una risposta esemplare nel senso del demonio, della grande tentazione di sovvertimento; ma ci sono le altre risposte di comodo che se sommate rappresentano un bel capitale d’inerzia di rinuncia e di rifiuto. Il diavolo non soltanto assassino, il più delle volte è un seminatore di inganni, di illusioni e pochissimi fra di noi possono sostenere di non averlo mai conosciuto. Ci ha insegnato la distrazione, l’omissione, la perfida consuetudine dell’omertà, il rovescio della lezione di san Francesco. Ecco perché la maggior parte delle volte che viene a battere alla nostra porta facciamo finta di non sentire e non apriamo e diventiamo strumenti della sua perfetta letizia. Noi siamo getti d’acqua congelata che gli percuotevano le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. Siamo noi a ripetere con il frate della porta che non si apre: «Vattene, non è ora decente questa di arrivare», perché di questa «decenza» abbiamo fatto l’optimum della nostra filosofia. Siamo sempre noi a ripetergli: «Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire». È sull’idiota, sull’ignoranza che fondiamo la nostra superbia, siamo cioè noi ad essere sconfitti perché non abbiamo più il senso della pazienza e ci illudiamo di strappare la pace e la libertà con il mondo del tentatore. In tal modo lasciamo fuori della nostra porta ciò che invece dovrebbe starci più a cuore, la verità del cuore.

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