Giovanni Verga - .
La letteratura sembra spesso divertirsi a depistarci e a sorprenderci. Giovanni Verga è uno dei grandi autori italiani che maggiormente confonde la nostra ricerca di coerenza. Aristocratico di nascita e reazionario in campo politico, il caposcuola del Verismo teorizzò – sulla scorta dei Naturalisti francesi – l’idea di una tecnica narrativa capace di essere “impersonale”, in modo che l’opera sembrasse, come si esprimeva, «essersi fatta da sé», priva cioè di un giudizio esterno esercitato da una interpretazione soggettiva dei fenomeni. L’opera – scrisse in uno dei più celebri 'manifesti' del Verismo, la prefazione alla novella L’amante di Gramigna – dovrà «aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».
Fin qui la teoria. Ma la pratica? Già Giacomo Debenedetti, critico per molti versi controcorrente, affermava che Verga «fu creduto e si credette verista, sebbene i suoi risultati più alti siano al di fuori e al di sopra, non solo dei canoni, ma delle previsioni del naturalismo». Leggendo le opere verghiane difficilmente si potrebbe affermare che una totale oggettività sia davvero raggiunta. E riconoscerlo non significa criticare negativamente lo scrittore. Al contrario, quegli elementi “umani” che riscontriamo in Verga, quasi malgrado se stesso, sono fondamentali per riconoscere il valore delle sue creazioni. Leggendo i casi di Rosso Malpelo – protagonista dell’omonimo racconto (che è il primo testo verista verghiano), il povero ragazzo impiegato nel duro lavoro di una cava, disprezzato da tutti e costretto a confrontarsi senza consolazioni con la violenza che domina i rapporti umani e l’intera realtà che lo circonda – verrebbe da esclamare con Dante: «E se non piangi, di che pianger suoli?».
Lo stesso si potrebbe dire a proposito dei casi sfortunati della famiglia Malavoglia, della triste parabola esistenziale di Mastro-don Gesualdo e delle vicende di tanti personaggi delle novelle. In altre parole, non si può negare che sia presente una forma di pietà che connota lo sguardo del narratore sui fatti raccontati. Difficile trovare un’opera che meglio di quella di Verga denunci il dolore e l’oppressione della povera gente. Certo, tutto ciò avviene senza retorica ( Verga non è De Amicis), ma non significa che tale compartecipazione non sia presente. È questo, se vogliamo, un primo elemento cristiano che il lettore può rintracciare nell’opera di Verga. Solo il primo di una serie, però.
Verga fece anche fotogragfie alle terre della Sicilia e ai suoi abitanti, come questa esposta nell'ottobre scorso a Modena - .
Lo mostra bene un’originale ricerca di un importante studioso, Giuseppe Savoca, professore emerito di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Catania, pubblicata da Olschki nel volume Verga cristiano. Dal privato al vero (pagine 236, euro 28). Il titolo è forte, perché la vulgata critica parla da sempre, a proposito dello scrittore siciliano, di materialismo, pessimismo e ateismo. Eppure a un’attenta lettura, scevra di ipoteche ideologiche, non sfuggono diversi tasselli che compongono un ben diverso ritratto di questo autore. Innanzitutto l’incombente senso del peccato, che Savoca interpreta come «una dolente risposta al trauma della cosiddetta morte di Dio: trauma che è il prezzo pagato dall’uomo occidentale al trionfo della modernità». Poi la riflessione sulla caducità dell’esistenza umana, che di per sé apre alla speranza di un 'oltre' che la trascenda: «che questa rivelazione e cogni- zione originaria sia naturaliter christiana è un dato testuale onnipresente in Verga, ma costantemente rimosso dalla critica».
Bambino, una foto di Giovanni Verga esposta nell'ottobre scorso a Modena - .
Per questo – ricorda Savoca – Gesualdo Bufalino affermava che la lettura di Verga «può insegnarci a credere nel rischio d’una redenzione, nel miracolo d’una luce». Ci sono, inoltre, alcuni personaggi che lo studioso definisce 'totalmente cristiani': come Maria – vittima, in Storia di una capinera, di una monacazione forzata che ricorda quella della Gertrude manzoniana – e Nedda, protagonista dell’omonimo “bozzetto siciliano”, la povera raccoglitrice di olive che perde prima l’amato, poi la figlioletta. In quest’ultimo testo «si fissa uno schema dicotomico tra esponenti di una religiosità autentica, del cuore e della carità, e praticanti e ministri obbedienti ad una precettistica e a un formalismo esteriori, e comunque conformistici, senz’anima e calore umano». L’indagine di Savoca arriva a queste conclusioni attraverso una serrata analisi non solo tematica ma anche linguistica dell’opera di Verga, includendo anche la corrispondenza privata dello scrittore, da cui emerge un atteggiamento sempre rispettoso nei confronti della religione cattolica, in cui era cresciuto ed era stato educato. A tale proposito viene citata anche una testimonianza di Federico De Roberto: «È stato sempre credente, sebbene non rigoroso osservante ». L’amico scrittore ricorda che ogni mese, nel giorno della morte della madre, Verga faceva celebrare una Santa Messa in suo suffragio. Segni, testuali e biografici, di una religiosità verghiana a lungo rimossa e ora finalmente riscoperta.