Il 29 marzo 1516, sotto il doge Leonardo Loredan, il Senato veneziano decreta che tutti «li giudei debbano abitar unidi» in zona recintata: nasceva il primo ghetto ebraico del mondo, che dunque compie 500 anni. Per l’anniversario sono previste molte iniziative, che saranno illustrate oggi all’Associazione Stampa Estera di Roma a cura del Comitato appositamente sorto sotto la guida del presidente della Comunità ebraica veneziana Paolo Gnignati. Tra i progetti principali: la mostra «Venezia, gli Ebrei e l’Europa» a Palazzo Ducale, un concerto alla Fenice, la settimana shakesperiana dedicata al Mercante di Venezia, il restauro e ampliamento del Museo ebraico. Anche la rivista «Pagine Ebraiche» di marzo dedica il dossier al mezzo millennio del Ghetto.C’è l’enigmatica figura di un ebreo di origine marrana nato forse in Portogallo attorno al 1530 – la cui identità è però ancor discussa –, cioè Salomon Usque hebreo o Salusque Lusitano ( secondo alcuni pseudonimo di Duarte Gomes, per altri figlio o parente dello stampatore Abraham Usque), stimato traduttore dei sonetti del Petrarca, qui presente con due composizioni: la «Canzone delle sei età del mondo» (che riprende il diagramma cronologico proposto da Agostino e poi da Isidoro) e la «Canzone sull’opera de’ sei giorni» (che seguendo la Genesi ripercorre i momenti dalla creazione del mondo a quella dell’uomo, al riposo sabbatico). E c’è Dawìd de Pomis, giunto a Venezia dopo tante peregrinazioni nel 1569 (quando il pericolo turco si faceva sempre più minaccioso), medico eclettico messosi a servizio del doge Alvise Mocenigo, che da allora sino alla morte – avvenuta nel 1593 – vide pubblicare sulle isole della laguna tutte le sue opere ed è qui presente con il suo bellissimo «Discorso intorno a l’humana miseria e sopr’al modo di fuggirla» (un percorso che coglie aspetti difficili della vita: dalle malattie all’educazione dei figli, ai problemi economici, al trascorrere del tempo, dispensando poi consigli), ma pure con i due testi «Picciol discorso sopra la republica venetiana» e «
De medico hebraeo enarratio apologica » (in difesa della sua professione). C’è Benedetto Luzzatto, nato all’inizio del Seicento, poi rabbino di Venezia e quindi di Padova, una vita segnata dalla melanconia dopo aver perso la sposa subito dopo le nozze, qui giovanile autore della fragile favola pastorale dall’atmosfera arcadica «L’Amor Possente». E c’è Leon Modena, nato nel 1571 a Venezia dove si era rifugiata la sua famiglia dopo aver lasciato Ferrara colpita dal terremoto (del quale molto conosciamo grazie alla sua
Autobiografia), a tutt’oggi l’esponente più illustre dell’ebraismo veneziano, qui sia nella veste di poeta e autore teatrale – ad esempio con «Preghiera per la vigilia del novilunio» e la tragedia
L’Ester –, sia in quella di polemista con lo scritto «Difesa da quello che scrive Fra’ Sisto Senese nella sua Bibliotheca, de precetti da Talmudisti a Hebrei contra Christiani». C’è Sara Copio Sullam, poetessa ebrea nata a Venezia alla fine del Cinquecento e riscoperta nell’Ottocento, con i suoi
Sonetti e c’è Simone Luzzatto, tra i fondatori della scuola ashkenazita con il
Discorso circa il stato de gl’Hebrei o
Il Socrate, overo dell’humano sapere (sulla relazione tra ragione e rivelazione, sapere umanistico e scientifico). Ci sono tutte queste figure affascinanti e tanti dei loro testi, appunto, da antologia, nel nuovo libro di Umberto Fortis
L’attività letteraria nel ghetto (Salomone Belforte & C. Editore, pp.504, euro 30). Sbalzati dal periodo fra 1550 e 1650, scelta quasi obbligata in quello che la storiografia considera il momento di maggior stabilità dell’«università de gl’hebrei », i loro profili e le loro opere ci ricordano che il Ghetto di Venezia, istituito giusto cinquecento anni fa (il 29 marzo 1516, avendo decretato il Senato veneziano che tutti «li giudei» dovessero «abitar unidi» in una zona sorvegliata), non fu solo spazio di segregazione, ma – nonostante i limiti imposti – anche luogo di partecipazione alla vita culturale della società veneta e italiana. Lo dimostra bene Fortis con questo lavoro, che recupera i tasselli ( spesso tradotti e commentati per la prima volta) offerti da un’élite intellettuale decisa a competere alla pari in un’ideale dimensione di libertà nella «repubblica delle lettere», anche adottando la lingua italiana. O ricorrendo all’uso di citazioni bibliche in latino secondo la Vulgata e non direttamente in ebraico. O impegnandosi in generi trascurati dalla cultura della diaspora. Il tutto per interagire con la società circostante, oltre il «serraglio ». E tuttavia, secondo prospettive comuni, senza mai rompere con la tradizione, i suoi canoni e valori. Come fa notare Fortis aprendo queste pagine – e pur sembrandogli di avvertire come un bisogno di nuove soluzioni tra le voci che si alzano dal «serraglio» – ecco che di fronte ai limiti «dell’humano intendimento » resta salda in Luzzatto la fede nella «divina rivelazione »; ecco Sara Copio rivolgersi a Dio affermando «la mia fede ha in te ferma possanza»; ecco Leon Modena avviare la sua preghiera con «mi presento davanti a te, o Dio, chiedendo rimedi contro il morso del serpente».