Benvenuti nel deserto dell’impensato. È il Sabato Santo secondo Mariapia Veladiano, la scrittrice che, dopo il toccante esordio con
La vita accanto (2011), è tornata a esplorare in
Il tempo è un dio breve (Einaudi) la dimensione del dolore e del silenzio, dell’attesa e della paura che ogni promessa, ormai, sia stata tradita. Teologa oltre che narratrice, Mariapia Veladiano riconosce nella giornata di oggi un ruolo decisivo per la sua esperienza personale. «Anche se in realtà è un passaggio che prima o poi riguarda tutti, nessuno escluso», aggiunge.
Si riferisce al silenzio di Dio?«Sì, ma anche al silenzio dell’uomo, che rimane senza parole davanti al manifestarsi dell’impensato. Rispetto al quale si è sempre portati a illudersi. Prima che faccia irruzione la sofferenza, ciascuno di noi vive nella convinzione che il mondo possa corrispondere alla pienezza della vita. Di solito, però, l’impensato ci si fa incontro proprio nel momento in cui pare che questo disegno benevolo si stia finalmente compiendo».
E allora che cosa accade?«Il primo istinto è la ribellione: basta, è finita, chiudiamola qui. Non si crede più alla promessa e ci si trincera in un silenzio pieno di sdegno. Anche i discepoli precipitano in questo timore. Gesù è morto sulla Croce, l’annuncio del Regno resterà una parola vuota, impossibile da realizzare».
C’è un modo per evitare di cedere allo sconforto?«Quella del Sabato Santo è un’esperienza universale, insisto. Ma questo lo si comprende solo dopo averla vissuta. Non ci si può preparare, perché ciò che avviene è, letteralmente, l’inimmaginabile. La morte di Dio fa precipitare il mondo, trascinando con sé perfino la speranza. Fino all’ultimo, guardando alla Croce, si può immaginare che no, Gesù non morirà, accadrà qualcosa che impedirà questo scandalo. Non accade nulla, invece. Colui che amavo se ne è andato, non rimane altro che questo silenzio assoluto. La fede è arrivata al suo ultimo passo».
Vuol dire che, a questo punto, non è più possibile credere?«Semmai è vero il contrario: credere è sempre vivere nell’assenza, in questa assenza inconcepibile che deriva dalla morte di Dio. Non c’è da stupirsi, in fondo. Anche un uomo e una donna, del resto, sanno che per la maggior parte del tempo il loro amore si nutrirà dell’assenza dell’altro. La quotidianità è intessuta di attesa, più che di presenza. Non sto dicendo che questa sia una consapevolezza facile da conseguire. Dopo la morte di Gesù, come ricordavo, i discepoli sono i primi a cedere alla paura, cercando rifugio nel cenacolo. Ed è lì che l’impensato si manifesta di nuovo, questa volta portando la salvezza. Il bello è che non si sa da dove arrivi. L’uomo sbarra la porta, ma il Risorto trova comunque il modo per farsi strada».
Sta già correndo al giorno di Pasqua.«Certo, perché il Sabato Santo è una parola che va pronunciata e ascoltata, ma non è l’ultima parola. Avendo conosciuto Dio nella sua assenza, possiamo assaporare il mistero di un’invisibile vicinanza. Abbiamo finalmente imparato a credere al cospetto dell’impensato. Non per fanatismo o per partito preso, ma perché abbiamo condiviso con Dio una storia della quale fanno parte anche la morte, il vuoto l’assenza. Crediamo proprio perché abbiamo sperimentato quella teologia dell’abisso che grandi pittori come Mantegna e Holbein il Giovane hanno saputo rappresentare in tutta la sua tremenda capacità di attrazione. Se quello nel sepolcro è davvero il corpo di Cristo, l’uomo non può fare a meno di abbandonarsi alla voragine che si spalanca di fronte a lui».
Sta qui l’universalità del Sabato Santo?«Sì, ma c’è un altro aspetto che vorrei sottolineare: questa giornata, come ogni altro elemento del Triduo, è inserito nella meravigliosa ciclicità della liturgia. Sono verità che non si imparano una volta per tutte, c’è bisogno che siano ripetute, noi stessi abbiamo la necessità di ascoltarle in stagioni diverse della nostra vita. Un principio pedagogico che oggi è quanto mai urgente riscoprire. Viviamo infatti nell’epoca della grande distrazione, che tende a negare la presenza del male nella storia, sottraendoci alla responsabilità e consegnandoci così, per paradosso, al dominio della morte. Il punto è che il male non può essere espunto dal nostro orizzonte. Va combattuto e non elevato al rango di una mistica intollerabile, come purtroppo è accaduto in passato, ma nel contempo va riconosciuto per quello che è: il limite nel quale si rivela la verità dell’umano. Non riuscire a comprenderlo non è il risultato di un condizionamento esterno. Semplicemente, è il segno che la nostra fede non è ancora abbastanza forte».