«Questa era l’unica canzone che potevo portare a Sanremo. Una frustata d’energia che invitasse, soprattutto i ragazzi, a continuare a sperare. Volevo una canzone che comunicasse emozione, fiducia e positività.». Il lettore cd suona
Chiamami amore, il brano che Vecchioni presenterà in gara al Festival. La voce di Roberto canta contro «i signori del dolore» e contro «quelli che stanno uccidendo il pensiero», ma anche «per l’operaio che ha perso il lavoro» e «per i ragazzi che difendono un romanzo». Più il brano cresce musicalmente e più arrivano sorprese. Fino al finale, molto efficace. «Per favore, non svelarlo» chiede Roberto. «In questa canzone ci sono tante cose: i bambini figli di immigrati che muoiono sulle barche, gli studenti che gridano, i nostri soldati eroi che purtroppo muoiono per niente e quest’Italia dove tanti esempi che si danno ai giovani sono tragici. Non tristi, tragici. Perché insegnano ad approfittare della vita, invece la vita è così importante che va centellinata».
«Chiamami amore» sembra composta da tre anime. È al contempo un’umanissima richiesta d’amore, un’esortazione civile e una preghiera.È in linea col mio percorso di questi ultimi tempi.
(Qui Vecchioni fa una pausa). Per favore, non chiamarlo, conversione. Non mi piace. Diciamo che rispecchia il mio stadio di apprezzamento del disegno di Dio.
Quando nel brano canti «difendi quest’umanità anche se restasse anche solo un uomo», sembri volerti rifare al dialogo biblico tra Abramo e Dio, a proposito di Sodoma.In questo brano c’è la citazione biblica e la denuncia dei crimini, quelli più evidenti e mafiosi e quelli meno evidenti, ma non meno forti, come la vigliaccheria, l’ignoranza e l’ipocrisia. Quello che però ho capito in questi ultimi anni è che chiunque può redimersi. E che quando sono davanti a un uomo, sono davanti all’umanità. Con i suoi sbagli, le sue colpe, i suoi limiti ma soprattutto la sua umanità. Soltanto un genio come Dio poteva creare una cosa così grande come l’umanità. Che raccoglie tutto e più di tutto. E non può essere certo figlia del caso. L’ho capito tardi, ma l’ho capito.
Al centro della canzone di Sanremo hai messo la frase: «Le idee sono il sorriso di Dio».Per me è così , davvero. Quando sento una vera novità, che di solito arriva dai giovani, io sento la presenza di Dio.
Hai detto: «Vado a Sanremo per vincere». Ci credi davvero?L’ho detto in un momento di esaltazione. Per me vincere non è arrivare primo, ma arrivare a più gente possibile. Far dire a qualcuno a casa: ah, questo è Vecchioni; ma allora non è poi così difficile o distante come credevo. Vincere per me è avere una bella critica. Certo, se vincessi la gara sarei felice. Abbraccerei i miei figli e mia moglie, farei festa, magari piangerei. Perché una cosa così non l’ho mai avuta nella vita.
Una tua vittoria servirebbe anche a Sanremo, dopo tanti anni di premi dati ai ragazzi usciti da «Amici» e «X Factor».Mi piacerebbe che Sanremo la pensasse così. Ma credo che la spunteranno Emma e i Modà.
È la canzone che ti ha riportato in gara al Festival dopo 38 anni o la tua amicizia con Morandi?Gianni mi ha martellato per mesi. Ma se non avessi avuto la canzone, non ci sarei andato. Ho detto no anche a Baudo, al quale voglio molto bene, due anni fa. È merito della canzone. Mi girava in testa da un sacco di tempo, solo che all’inizio mi sembrava troppo facile. E io le cose facili non le sopporto: infatti non è che ami così tanto miei brani come Samarcanda. Poi una notte a Roma, in hotel, mi è venuta tutta di colpo. Non avevo niente su cui scriverla. Così l’ho fatto sull’unico posto che ho trovato, cioè sulle tende della camera. La mattina dopo ho chiamato Gianni e gli ho detto: «Sono pronto».
Durante la serata del Festival dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia canterai «’O surdato ’nnammurato». Perché l’hai scelta?Per tre motivi: mi piace tantissimo, è napoletana – e io sono figlio di napoletani – e il terzo motivo è che ha un grande valore simbolico: è la storia di un ragazzo povero che parte per la Prima guerra mondiale e sa che non vedrà mai più il suo amore. Molti credono che il suo ritornello («Oi vita, oi vita mia...») sia festoso, invece è di una drammaticità unica. Quel povero ragazzo sta piangendo. Sa che devo difendere la Patria, ma ha il cuore lacerato. Un’immagine purtroppo ancora molto attuale.
Molti si aspettavano che avresti scelto un pezzo più «politico».Sbagliavano. Nella mia carriera non ho mai esagerato con la politica. Ho sempre lasciato le cose tra le righe. Perché credo sia più intelligente e persino efficace – come diceva Franco Fortini – non sbattere in faccia le cose alla gente. E poi, a volerla leggere con attenzione, ’O surdato ’nnammurato è già bella schierata.
Che album farai uscire dopo Sanremo?Conterrà tutti brani d’amore. Tre inediti nuovi, più uno del 1963, Il bene di luglio, e otto miei canzoni d’amore poco conosciute come Love song. Le ho rifatte tutte.
È vero che un inedito «d’amore» parlerà di Iraq?Sì, è la storia di un ragazzo ferito in Iraq che, nel letto d’ospedale, parla con l’infermiera che lo cura, confondendola con sua madre. Un altro inedito è dedicato a una donna. Ma lo fa in un modo non convenzionale. Elenca tutte le cose, i ricordi, i gesti e i pensieri del nostro amore che mi vorrei portare nell’aldilà.
In questi ultimi anni la canzone ha perso mercato e peso. A te che hai vissuto la stagione d’oro e impegnata della musica, che effetto fa: ti senti più libero o la vivi come una condizione frustrante?No, non c’è nulla di frustrante. Io mi sono sempre dato una grande libertà di scrittura. Non ho mai pensato a quanti mi venissero dietro. E non rimpiango certo la pesantezza degli anni 70, dove dovevamo inzeppare le canzoni di citazioni per far vedere che eravamo colti. A me piace la sintesi e la levità che c’è oggi, mi spiace solo che ormai nulla sembri avere più peso. Né la musica, né il cinema, né i libri. E, a volte, neanche le idee. Per questo bisogna sperare. Come direbbe Eduardo: «Adda passà ’a nuttata».