C'è una domanda di fondo che accomuna molti dei lavori di Niall Ferguson, docente di Storia moderna alla Harvard University e ormai ampiamente noto anche al pubblico italiano. È la domanda sui fattori che consentono a uno Stato di costruire e conservare nel tempo un impero, e sugli elementi che ne sanciscono, a un certo punto, il declino più o meno irreversibile. E, soprattutto, è la domanda sui rischi, le tragedie, le violenze che scaturiscono – più o meno inevitabilmente – dalla disgregazione di un impero. Nella
Verità taciuta (Corbaccio) e in
XX secolo (Mondadori), per esempio, Ferguson cerca di ricostruire le tappe che conducono alla Prima Guerra Mondiale e al tramonto dei grandi imperi multinazionali in Europa. In
Impero (Mondadori) riscopre le basi che sostenevano l’egemonia britannica nell’Ottocento e mostra anche gli effetti positivi – in termini economici e politici – garantiti a lungo dall’impero coloniale di Londra. In
Colossus (Mondadori) si rivolge invece ai fattori che avevano garantito l’ascesa economica e politica degli Stati Uniti e a quelli che sembrano oggi presagirne il declino. Ma la stessa domanda emerge anche dalla riflessione più recente di Ferguson, da
Ascesa e caduta del denaro (Mondadori) e dai suoi studi storia finanziaria. Perché la crisi economica globale rischia di sancire la fine della globalizzazione. E di innescare così l’avvio di una nuova stagione di violenza.
Professor Ferguson, nei suoi studi ha tessuto uno straordinario elogio dell’impero britannico. Un impero che, contro gran parte delle immagini più consolidate, appare dunque come un «impero benevolo», capace di produrre effetti positivi anche per i popoli sottoposti al dominio coloniale. Quali erano gli elementi che rendevano l’impero britannico così diverso dagli altri imperi della storia?«Il mio interesse nei confronti dell’Impero britannico nasceva da una domanda ben precisa. In particolare, mi chiedevo "come" fosse riuscito a "costruire il mondo moderno", ossia come fosse riuscito a diffondere, nel mondo intero, istituzioni per noi ancora così importanti come il libero mercato, lo Stato diritto e il sistema rappresentativo. La risposta è che l’impero britannico riuscì in questa impresa non soltanto grazie all’occupazione militare, ma soprattutto mediante un efficace
nation-building. Durato, in alcuni casi, quasi due secoli. In altre parole, il lungo periodo dell’occupazione e dell’amministrazione delle colonie è un elemento imprescindibile per comprendere gli effetti positivi che il dominio imperiale britannico ebbe soprattutto in alcune aree del mondo. Ed è proprio quell’elemento che manca, ed è sempre mancato, nelle ambizioni imperiali americane».
In «Colossus», qualche anno fa, sosteneva che il mondo aveva bisogno urgente di un «impero liberale» che solo gli Usa potevano costruire. Oggi, però, molti parlano dell’avvento di un «mondo post-americano». Siamo davvero di fronte a un declino degli Stati Uniti?«In effetti da quando ho scritto
Colossus sono diventato molto più pessimista sulle sorti degli Stati Uniti e sulla loro possibilità di edificare qualcosa di simile al vecchio impero britannico. A differenza della Gran Bretagna, gli Stati Uniti sono fortemente dipendenti dal capitale straniero e hanno un forte deficit di manodopera. Ma non penso che la crisi segni per gli Stati Uniti l’inizio di un declino irreversibile. Non tanto perché gli Usa non siano fortemente colpiti dalla crisi, quanto perché altri paesi si trovano a farne le spese probabilmente in modo ancor più marcato. L’Europa in particolare mi sembra risulti ancor più colpita dagli effetti di una crisi che, a ben vedere, è nata proprio in America. E, paradossalmente, la posizione americana appare dunque migliorata, in termini relativi, nei confronti dell’Unione Europea. Ciò che appare ormai chiaro è invece che il beneficiario principale di questa situazione è la Cina. Ovviamente, il Pil cinese raggiungerà quello americano solo fra più di un decennio, ma il punto è che, a meno di sorprese, la Cina sembra ormai incamminata a conquistare un ruolo di superpotenza, accanto agli Usa.
Le difficoltà degli Stati Uniti nascono dal classico meccanismo dell’«overstretch» imperiale? In altre parole, la crisi scaturisce dalla crescita di impegni militari, che a loro volta determinano un sovraccarico fiscale sempre più insostenibile? O si tratta invece di difficoltà che nascono altrove?«In realtà penso da tempo che i fattori più critici per gli Stati Uniti non provengano dall’esterno, ma dall’interno. Dunque non credo che la crisi fiscale tragga origine dagli impegni militari americani. Il vero problema nasce piuttosto dalla gestione del bilancio domestico, e in particolare dalle spese relative ai programmi di welfare nazionali. Spese che sono destinate a crescere nel tempo, almeno in rapporto agli introiti fiscali. E che tenderanno a diventare sempre più incontrollabili».
Nei suoi libri, lei svolge uno straordinario elogio degli imperi, come freno alla violenza. È un discorso che vale anche oggi? Assisteremo una nuova esplosione di violenza?«La costruzione della globalizzazione ha richiesto molto tempo, ma la sua distruzione potrebbe avvenire molto più rapidamente. D’altronde c’è un precedente che non possiamo dimenticare. La grande espansione globale dei mercati, fra il 1870 e il 1914, ebbe un impatto straordinario, non solo sotto il profilo economico. La sua inversione fu però molto più rapida, e i risultati come sappiamo furono disastrosi. È proprio per questo che guardo con una certa preoccupazione ai segnali che ci indicano una rapido declino della globalizzazione. Un declino che è visibile nella diminuzione del volume degli scambi, ma che probabilmente si farà sentire anche sui flussi migratori, con la prevedibile inversione degli spostamenti cui abbiamo assistito negli ultimi decenni».