Con questo articolo il sociologo Paolo Sorbi prosegue una ricerca sviluppata in questi anni sulle colonne di “Avvenire” e rielaborata, tra l’altro, nel recente volume Poveri e capitale. La povertà nella politica (Scholé, pagine 160, euro 14,00; prefazione di Mario Tronti), nel quale l’autore si propone di “tradurre” per il peculiare “arcipelago cattolico” la grande storia della povertà, dei poveri, di quei poveri che si auto organizzano nel corso dei millenni. Sorbi dirige il Centro di Ricerche di psicologia politica e geopolitica dell’Università Europea di Roma.
In Europa, fino a tutti gli anni Ottanta, abbiamo assistito ad una diffusa conflittualità sociale che è andata “verso la fine”, a causa di colossali mutamenti tecnologici, di composizione sociale del mondo del lavoro, di crescita delle dinamiche finanziarie non più produttive. Tanto che oggi, grazie all’espansione delle reti sociali, forse, non possiamo parlare di capitalismo classico, poiché le nuove tecnologie, il non lavoro, il precariato permanente, la necessità di emigrare da parte delle nuove generazioni anche europee, conducono alla scoperta di un altro mondo, un’altra epoca. Il processo di innovazione-conflitto sociale dura da molte centinaia di anni, con forti velocità da metà Ottocento.
E ancora oggi subisce accelerazioni difficilmente gestibili. Tutto questo ha implicato il “suicidio” del lavoro meccanizzato e concentrato in grandi fabbriche. Lo sviluppo delle forze produttive è incrementale: più si assiste al loro sviluppo, più l’incremento diviene geometrico ed emergono sempre nuove applicazioni informatizzate e robotizzate. La genialità porta a quello che possiamo chiamare “cervello sociale” collettivo, intendendo collettivo non senza proprietà, ma di tanti. A questo punto cosa ne sarà del lavoro? Gli anni Ottanta, in un certo senso, hanno dato addio a narrazioni fantascientifiche, ai racconti allegorici, perché negli anni Novanta le imprese fondative di Apple e di Microsoft hanno realizzato molte intuizioni del decennio precedente. Sono emerse anche grandi bolle tecnologiche che hanno trascinato via molte utopie e si capisce che il passaggio all’attuale millennio e all’attuale fase già maturata con pervasive applicazioni automatizzate, è ancora troppo poco analizzata.
Tutto lo scenario storico, sociologico, tecnologico e psichico evidenziato porta ad un argomento chiave, dopo tanti conflitti sociali: maturità dello sviluppo. Nessuno nella comunità dei ricercatori sociali sa cosa significhi combinare tra di loro tre assi strategici che vanno emergendo: le energie alternative, la disseminazione dei processi di intelligenza artificiale e l’emergente energia atomica civile pulita, la famosa fusione atomica che in uno spazio di trenta, quarant’anni, la generazione di oggi conoscerà. La maturità dello sviluppo e la crisi della globalizzazione portano, dunque, alla presa di coscienza che questa crescita capitalistica non può andare molto oltre e che è necessario un nuovo modello di sviluppo, come ben descrive papa Francesco nell’enciclica Laudato si’.
Nel rapporto 2018 della Mc Kinsey – importante multinazionale della consulenza di scenari futuri – si delinea come l’automazione cresca maggiormente in quattro economie: Cina, India, Giappone e Stati Uniti. Dove si concentrano i 2/3 della forza lavoro e la metà del monte salari connessi alle attività automatizzate. Intanto la paura di oggi non è questa. È quella della mancanza di lavoro, dalla continua chiusura di aziende in tutto l’Occidente, della decrescita dell’area dei servizi terziari come opportunità ed offerta di impiego. Si moltiplicano le previsioni, ancora piuttosto imprecise, su possibili “apoca-littiche” di non lavoro generalizzato, sostituito da robot e macchine intelligenti. Gli ultimi rapporti Ocse hanno fissato, entro il 2020, il rimpiazzo di cinque milioni di posti di lavoro, con altrettanti robot, in quindici Paesi del mondo. Ma è veramente così? Come fa rilevare il sociologo americano Alec Ross in Il nostro futuro (Feltrinelli 2016) ben il 70% di tutta la produzione automatizzata è presente in cinque Paesi: Giappone, Stati Uniti, Corea del Sud, Cina e Germania. Inoltre il divario con il resto dei vasti spazi terrestri potrebbe allargarsi, potrebbe rivelarsi meno diffuso di quanto si pensi, perché avremo nuove polarizzazioni sociali fra ricchi e poveri e difficili crisi economiche e demografiche in futuro.
Sempre l’Ocse prevede che nei prossimi quarant’anni, le economie dell’Occidente potranno crescere in media solo dell’1,75% l’anno proprio perché i nuovi innesti di nuovi modi di produrre sono molto complessi e recenti surveys di mercato mostrano non solo che c’è la paura verso le immigrazioni, ma anche la paura verso le robotizzazioni. Scarsa attenzione è stata data nelle ricerche, sulle quote percentuali di “neo-luddismo” emergente. Si sottostima completamente l’occupazione che, fortunatamente, fa da contrappasso alla scarsità di lavoro.
L’approccio catastrofista dimentica che i difficili adattamenti generazionali degli individui tra i venticinque e i quarant’anni, gradualmente saranno sostituiti, con adattamenti generazionali, che potrebbero permettere combinazioni più funzionali rispetto a questi primi vent’anni del terzo millennio che hanno sostenuto i primi duri impatti, rispetto alle novità ed alle ristrutturazioni dei primi trent’anni dei processi di globalizzazione. Ross porta l’esempio dell’Africa e dell’Asia, dove l’emergenza applicata della robotica indica che, per vasti territori geografici, è possibile saltare un’intera fase industriale avanzata. Ancora: l’automazione evidenzia, in nuce, l’inversione dei processi di delocalizzazione. Torna la produzione in molti Paesi occidentali, ovviamente con diffuse postazioni di lavoro automatizzate.
In Cina, come ha ben sottolineato il sociologo Ferruccio Gambino nel suo libro Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e lotte operaie in Cina (Ombre Corte 2014), per eliminare la nuova conflittualità operaia si è rapidamente ristrutturato il parco tecnologico di grandi aziende come la Foxconn nei cui laboratori di assemblaggio di componenti elettroniche, tra il 2005 ed il 2009, circolavano cortei come nell’autunno caldo alla Mirafiori di Torino. Già oggi in Cina, queste classiche dinamiche della società industriale, sembrano lontane anni luce a causa della presenza di automatizzazioni ed intelligenza artificiale.
La radicale novità delle ristrutturazioni di intelligenza artificiale, anche rispetto alle geniali intuizioni di “tecnologia liberante” intraviste da Marx nei suoi Frammenti di critica giovanile all’economia politica, è il fatto che anche nel settore servizi si diffonde la robotizzazione. Anzi queste dinamiche sono già oggi oltre il doppio di quelle del settore industriale sino a toccare aree impensabili del lavoro di cura e di relazione tra persone, come nei settori ospedalieri, dei servizi di consulenza, dei grandi studi di ingegneria ed architettura. Anche qui, però, non bisogna subito cadere nella trappola della inevitabilità del trionfo della macchina automatizzata. Il ricercatore sociale Michio Kaku nel suo Fisica del futuro (Codice 2012), mostra che si tratta piuttosto di “sistemi esperti” che supportano l’interazione tra uomo e macchina, non brutale sostituzione della macchina verso l’uomo. Interfacce, insomma: lo sottolinea anche il sociologo americano, di Chicago, Richard Sennett, in vari suoi scritti sulla cultura del nuovo capitalismo globalizzato.
La “sindrome dell’inutilità” arriva a minacciare tradizionali mestieri di origine artigianale. Solo che, rileva Sennett, è proprio nell’epoca dell’automazione spinta che riemergono prospettive di autorealizzazione professionale, eliminate nelle tante fasi storiche delle trasformazioni dell’industria classica. Si possono recuperare, solo a questo livello dello sviluppo maturo, tradizionali esperienze lavorative, preziose, che si pensavano oramai obsolete. In un altro recente rapporto dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) sul futuro dei nuovi segmenti dei mercati dei lavori automatizzati, si è posto al centro il diritto, garantito dai pubblici poteri, alla formazione continua. Pur non essendo l’unico strumento per superare le oggettive difficoltà della domanda di lavoro, la formazione, intesa così, è fondamentale per le giovani generazioni nell’adattamento all’inevitabile flessibilità, ma anche ai necessari supporti per trovare continuamente occasioni di nuovi sbocchi occupazionali. Connesso alla preparazione lungo tutto l’arco della vita, bisognerà ridisegnare il welfare anche tenendo conto di due altri megatrend: i cambiamenti climatici e quelli demografici che richiedono modifiche alla classica domanda di protezione.
È strano, nel nostro Paese non abbiamo istituti di ricerca sul futuro delle applicazioni tecnologiche e dei bisogni culturali a queste impressionanti novità dei mercati del lavoro. Ancora ci si illude che, mettendo un po’ più di soldi in tasca a questo o a quel gruppo sociale, possano riapparire tassi di crescita dei 3-4%. Serve un’analisi più nuova ed approfondita che aiuti a cambiare il complessivo e oramai “stramaturo” modello di sviluppo capitalistico. Dai molteplici tentativi, errori e successi, che verranno compiuti, dipenderanno anche i tassi di crescita occupazionali del futuro ambiente tecnologico automatizzato.