Scindere lo sport dallo spettacolo è stata sempre una impresa ardua. Oggi è impossibile. Il calcio è uno sport eminentemente spettacolare. Esige una platea che altri sport possono anche non avere. Un fondista può correre per cinque chilometri da solo esaltandosi della sua solitudine. Un giocatore di calcio senza pubblico è uno sportivo triste (basta guardarlo), anche se palleggia divinamente e tira all’incrocio dei pali. I suoi compagni di squadra e gli avversari, nelle partite di allenamento, non sono sufficienti ad appagare il suo narcisismo psicofisico. La massa che gremisce lo stadio è il vero destinatario delle sue fatiche pedatorie. La massa di un derby è il massimo a cui può aspirare un professionista del pallone. Perché è una massa divisa in due masse che si detestano a vicenda e che quindi creano un clima da guerra civile potenziale. In un derby, in qualsiasi derby, non solo in Milan-Inter, il giocatore di calcio è l’eroe che può decidere le sorti di questa guerra civile sportiva. Si dice “sportiva” per antica consuetudine, ma non è sportiva. A un interista tifoso, nun gliene pò fregà de meno se l’Inter gioca benissimo ma perde. Ha onorato lo sport ma ha disonorato il tifoso. Per il quale è assai meglio il disonore di una partita vinta senza il minimo merito, magari grazie alla distrazione attiva di un arbitro. Questo è il tifoso, e chi sostiene il contrario o è un impostore o non è mai andato allo stadio.Il giocatore non è molto più stimabile del suo tifoso. Pur di vincere, sarebbe disposto a fare carte false. Ambisce alla vittoria per due ragioni essenziali: il denaro e la vanità. Sa che per almeno una settimana i tifosi parleranno della sua squadra e di lui in termini euforici. La tifoseria avversaria, in termini lividi. E non c’è sentimento più vivificante della soddisfazione di avere inflitto alla massa nemica una scorticante mortificazione. Tuttavia, il giocatore si è anche esibito con il suo corpo atletico e le sue fantasie geometriche. Ha corso, ha sudato, ha faticato, ha subito colpi, ha cercato di restituirli rischiando di farsi male, si è dannato dietro a una palla persa, insomma ha praticato uno sport chiamato calcio. La sua pagnotta miliardaria se l’è in qualche modo guadagnata, recitando in uno spettacolo che aveva per scopo la sua esaltazione psicofisica. Il tifoso invece, anche quello che ha vinto, non ha altro da vantare che la propria scalmanata sedentarietà. La sua attitudine a sfottere i tifosi perdenti è grottesca.
Il Tizio interista odia il Caio milanista, e viceversa, soltanto perché ha ereditato dal fato la passione per i “colori” nerazzurri o rossoneri. Si immagini una tragedia di Sofocle messa in scena da Aristofane. Orrore e risate. Ma l’orrore colora di sé anche le risate. Se lo sport è una proiezione del corpo, il tifo è l’espressione del fondato timore di non averlo.Per questo il tifoso si identifica con il corpo di ognuno dei giocatori della sua squadra. Le sue sconfitte o le sue vittorie sono immaginarie, conseguite cioè da un altro. L’ira-passione del tifoso è tanto più temibile in quanto il risultato non dipende da lui, ma da uno che non gli è neanche parente. La vittoria rende felice il tifoso perché oscura la coscienza della sua radicale alienazione, nello stadio e nella vita. Tale coscienza, anzi, si trasforma nella convinzione di un possesso. Ed è vero, solo che il possesso è immaginario. E su questo possesso immaginario si fondano tutti i poteri reali. Gli sponsor non sono mica scemi.