venerdì 12 luglio 2013
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Domenica ricorrono i cinque anni dalla morte dello scrittore Giuseppe Bonura, che fu anche critico di “Avvenire”. Nato a Fano nel 1933, Giuseppe Bonura ha vissuto per la maggior parte della sua vita a Milano. Giornalista di “Avvenire” e collaboratore di vari periodici culturali, è stato autore di numerosi romanzi, dall’esordio nel 1966 con “Il rapporto” a “La pista del Minotauro” del 1970, da “Per partito preso” del 1978 a “La ragazza dalla luna storta” del 1980. Due volte vincitore del premio Grinzane Cavour per la narrativa italiana, con “Il segreto di Alias” del 1984 e “Le notti del cardinale” del 2000, ha firmato anche volumi di racconti (“I satiri virtuosi”, “La castità dell’ospite”, premio Buzzati) e di saggistica (“Il gioco del romanzo”, “Invito alla lettura di Italo Calvino”). Vi proponiamo una sua riflessione inedita sul processo d’identificazione e sulle pulsioni scatenate dallo sport.Una partita di calcio è un rito violento, in cui è inclusa la vittima, per non dire le vittime. Ma anche l’esodo estivo è un rito violento con molti morti ammazzati, e non ha l’alibi dello sport. Alibi che è decisivo. Non c’è dubbio che i ventidue tizi in mutande e scarpette adeguate che prendono a calci un pallone in un rettangolo di terra erbosa, praticano uno sport, qualunque significato abbia la parola sport. Ma non c’è dubbio che nel calcio il pubblico tifoso vuole vedere la propria squadra umiliare la squadra avversaria e i suoi tifosi, altrimenti non si diverte, non gode. L’odio si palpa con le mani, e i virtuosi sociologi della domenica avrebbero un comportamento più consono alla decenza intellettuale se non propinassero lezioni di astratta lealtà calcistica. Le illusioni dilettantistiche sono cadute da un pezzo, e chi non ne parla o è un ipocrita o un cretino.Io amo il calcio per averlo praticato, e posso permettermi questo linguaggio. Il mio dolore per la sua degradazione a merce spettacolare si manifesta spesso e volentieri nell’invettiva indiscriminata, di cui ne fanno le spese il mio interista sfegatato e la mia milanista di vecchia data. L’atteggiamento olimpico mi è precluso proprio dal mio passato calcistico. Ci crediate o meno, quando giocavo nella Vis Pesaro, sul finire degli anni Cinquanta, fui sul punto di passare alla Fiorentina. Il mio talento di mezzala sinistra (oggi si direbbe: seconda punta arretrata) aveva ingolosito un osservatore viola. Costui si accorse che avevo un lieve difetto: della vittoria nun me ne poteva fregà de meno, quello che per me contava era la bellezza del gioco. E anche oggi, guardando una partita di calcio, allo stadio o in televisione, non mi interessa che vinca la Juventus (la squadra per cui sono costretto a tifare a causa delle passioni incontrollate della fanciullezza e della adolescenza): mi interessa che la Juve giochi bene, ossia con ardore e fantasia. Un atteggiamento che mi attira il sospetto e l’ira dei tifosi juventini che frequento. E hanno ragione loro.
 
Scindere lo sport dallo spettacolo è stata sempre una impresa ardua. Oggi è impossibile. Il calcio è uno sport eminentemente spettacolare. Esige una platea che altri sport possono anche non avere. Un fondista può correre per cinque chilometri da solo esaltandosi della sua solitudine. Un giocatore di calcio senza pubblico è uno sportivo triste (basta guardarlo), anche se palleggia divinamente e tira all’incrocio dei pali. I suoi compagni di squadra e gli avversari, nelle partite di allenamento, non sono sufficienti ad appagare il suo narcisismo psicofisico. La massa che gremisce lo stadio è il vero destinatario delle sue fatiche pedatorie. La massa di un derby è il massimo a cui può aspirare un professionista del pallone. Perché è una massa divisa in due masse che si detestano a vicenda e che quindi creano un clima da guerra civile potenziale. In un derby, in qualsiasi derby, non solo in Milan-Inter, il giocatore di calcio è l’eroe che può decidere le sorti di questa guerra civile sportiva. Si dice “sportiva” per antica consuetudine, ma non è sportiva. A un interista tifoso, nun gliene pò fregà de meno se l’Inter gioca benissimo ma perde. Ha onorato lo sport ma ha disonorato il tifoso. Per il quale è assai meglio il disonore di una partita vinta senza il minimo merito, magari grazie alla distrazione attiva di un arbitro. Questo è il tifoso, e chi sostiene il contrario o è un impostore o non è mai andato allo stadio.Il giocatore non è molto più stimabile del suo tifoso. Pur di vincere, sarebbe disposto a fare carte false. Ambisce alla vittoria per due ragioni essenziali: il denaro e la vanità. Sa che per almeno una settimana i tifosi parleranno della sua squadra e di lui in termini euforici. La tifoseria avversaria, in termini lividi. E non c’è sentimento più vivificante della soddisfazione di avere inflitto alla massa nemica una scorticante mortificazione. Tuttavia, il giocatore si è anche esibito con il suo corpo atletico e le sue fantasie geometriche. Ha corso, ha sudato, ha faticato, ha subito colpi, ha cercato di restituirli rischiando di farsi male, si è dannato dietro a una palla persa, insomma ha praticato uno sport chiamato calcio. La sua pagnotta miliardaria se l’è in qualche modo guadagnata, recitando in uno spettacolo che aveva per scopo la sua esaltazione psicofisica. Il tifoso invece, anche quello che ha vinto, non ha altro da vantare che la propria scalmanata sedentarietà. La sua attitudine a sfottere i tifosi perdenti è grottesca.
Il Tizio interista odia il Caio milanista, e viceversa, soltanto perché ha ereditato dal fato la passione per i “colori” nerazzurri o rossoneri. Si immagini una tragedia di Sofocle messa in scena da Aristofane. Orrore e risate. Ma l’orrore colora di sé anche le risate. Se lo sport è una proiezione del corpo, il tifo è l’espressione del fondato timore di non averlo.Per questo il tifoso si identifica con il corpo di ognuno dei giocatori della sua squadra. Le sue sconfitte o le sue vittorie sono immaginarie, conseguite cioè da un altro. L’ira-passione del tifoso è tanto più temibile in quanto il risultato non dipende da lui, ma da uno che non gli è neanche parente. La vittoria rende felice il tifoso perché oscura la coscienza della sua radicale alienazione, nello stadio e nella vita. Tale coscienza, anzi, si trasforma nella convinzione di un possesso. Ed è vero, solo che il possesso è immaginario. E su questo possesso immaginario si fondano tutti i poteri reali. Gli sponsor non sono mica scemi.
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