Liv Ullmann compirà 80 anni il 16 dicembre 2018
Guardando negli occhi azzurro cielo Liv Ullmann, la musa di Ingmar Bergman, sua compagna di vita, amica e collaboratrice, si percepisce a pelle quella che i registi definiscono la sua “aura”. Bionda, snella, ancora bellissima alla soglia degli 80 anni - li compirà il 16 dicembre - , l’attrice e regista norvegese è l’ospite d’onore del 36° Bergamo Film Meeting, che si conclude domani, che le dedica una retrospettiva e una mostra fotografica Liv & Ingmar nel centenario della nascita del grande regista svedese, padre di sua figlia Linn. Liv Ullmann mi accoglie nell’hotel dove alloggia con un largo sorriso e nota il crocifisso dedicato alla Trinità che porto al collo. «Ma è bellissimo!», dice sfiorandolo con le dita. E quando le spieghiamo che Avvenire è il giornale dei cattolici italiani, l’ex ragazza timida, proveniente da una famiglia luterana molto religiosa e interprete di alcuni capolavori di Bergman sul Mistero, esclama felice: «È Dio che ci ha messo in contatto!». L’intervista non può che iniziare da qui.
Signora Ullmann, Ingmar Bergman era figlio di un pastore luterano, lei ha avuto una forte educazione religiosa. Avete mai discusso della fede e di Dio, argomenti presenti in molti suoi film?
«Ingmar ha sempre detto di non credere in Dio. Tanto che fece girare a me nel 1997, era la mia vera prima regia, Conversazioni private, ispirato alla storia dei suoi genitori (Erik Bergman fu vicario della chiesa di Hedvig Eleonora Church a Stoccolma ed anche cappellano reale alla corte di re Gustavo V di Svezia ndr.). Gli chiesi: ma perché non lo fai tu?. “Tu sei la sola persona che conosco che crede in Dio” rispose. Io sono molto credente. Ma anche lui credeva, nonostante dicesse di no. Ha avuto talmente tanti dubbi su Dio, che può averli solo uno che nel profondo crede in qualcosa. La fede è fatta di dubbi. Bergman voleva Dio, e sono convinta che Dio lo abbia aiutato nella sua ricerca».
Non è un caso quindi che, nel suo primo lavoro da regista, un episodio del film Love del 1982, la Bibbia abbia un ruolo importante.
«La prima storia che ho voluto raccontare da regista è stata quella di un uomo anziano solo, un anziano “invisibile” come ce ne sono tanti. Poi scopriamo che ogni giorno va all’ospedale a dare da mangiare alla moglie malata e incosciente, e le legge i passi della Bibbia. Quello è amore. È un esempio di tante persone invisibili nel mondo di cui, se andassimo a conoscerle bene, scopriremmo la profonda umanità».
E proprio a come si vive alla sua età è dedicato il libro “La luce blu” che lei sta scrivendo.
«La luce blu è quel tipo di luce nel cielo quando è passato il tramonto e sta diventando buio. Descrive l’ottica che ha la persona anziana della vita. A una certa età arriviamo a non vederci più come prima, ma non è solo il tempo della chiusura, della fine e dell’attesa della morte. È un’età in cui si può mettere a frutto l’esperienza, le cose che si sono imparate, e avere una visione più chiara della vita».
Tornando indietro nella sua, di vita, quando è nata la passione per il cinema e il teatro?
«Devo tutto al cinema italiano. Per me il cinema è il Vittorio De Sica di Umberto D, Miracolo a Milano e Ladri di biciclette. Mia mamma mi portava spesso al cinema quando ero una bambina di 8-10 anni. Quei film mi hanno fatto capire che c’era un altro mondo, oltre alla Norvegia, mi hanno allargato gli orizzonti. E poi c’erano quelle vostre magnifiche attrici, Silvana Mangano, Sophia Loren… Lì ho capito che volevo fare l’attrice, per essere in connessione con gli altri. Il teatro è venuto di conseguenza. Poi ho avuto la fortuna di lavorare con Monicelli in Speriamo che sia femmina e con Bolognini. Addirittura mi sono sposata durante le riprese di Mosca addio... Monicelli ha disegnato il mio abito».
Cosa ha scoperto (a undici anni dalla morte) di Ingmar Bergman?
«Rileggendo le sue sceneggiature, per mettere in scena a teatro Conversazioni privateche spero di portare presto al Napoli Teatro Festival, ho scoperto il grande scrittore che era. All’epoca ero troppo concentrata a interpretare le sue battute, abbagliata dalla bellezza visiva dei suoi film. Ma leggetelo: era uno scrittore umanistico, con un interesse toltale per quello che fanno e che non fanno le persone nella vita. Pensate a quella frase incredibile che ne Il settimo sigillo pronuncia il Conte mentre gioca a scacchi con la morte: “Morte non prendermi prima che io abbia potuto fare una cosa buona nella vita”. Lui non amava la freddezza e l’indifferenza fra le persone. Ora che sento di averlo capito, sono orgogliosa di portare per il mondo il suo messaggio. Quello che dico è la mia lettera d’amore a Bergman perché mi ha dato le parole».
Lei è stata il volto femminile delle inquietudini del regista.
«Io ero il suo alter ego al femminile, al pari di Max Von Sidow al maschile. L’unico film in cui sono me stessa e non lui è Scene da un matrimonio, che non è esattamente la nostra storia, ma una storia comune a moltissime altre coppie. Solo che negli anni ’70 rappresentava un passo verso l’emancipazione femminile, difficile anche per me, che avevo un’altra educazione. Ma, nell’interpretare una donna dapprima remissiva e poi consapevole di se stessa, sono cresciuta anche io. Oggi che la violenza sulle donne è cosi aumentata dico alle ragazze che la cosa importante è imparare ad ascoltarci gli uni gli altri, ed ad ascoltare se stesse».
E proprio a favore delle donne rifugiate lei è una delle fondatrici della “Woman Refugee Commission”.
«Quelle a favore dei rifugiati, delle donne e dei bambini con Wrf e come vice presidente dell’International Rescue Commitee sono le mie attività più importanti. La situazione attuale dell’accoglienza e dei rifugiati è molto brutta in generale. Qui in Italia ha appena vinto le elezioni la destra, nella mia Norvegia c’è un governo di destra, io vivo in America dove c’è Trump: si è sdoganata la politica dell’odio. Non possiamo starcene tranquilli qui a parlare di cinema infischiandocene di bambini che muoiono sotto le bombe, famiglie che devono scappare dai loro Paesi e di donne che per passare in Europa vengono violentate e vendute. Non possiamo pensare che il mondo debba essere accogliente solo verso di noi, e non verso gli altri. La vera rivoluzione si fa essendo accoglienti nel nostro quotidiano con tutti».